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Nathaniel Hawthorne

Settimio Felton

ovvero

L’elisir di lunga vita

 

a cura di

Patrizio Sanasi

 

SETTIMIO FELTON

Era un giorno di primavera appena inoltrata, e come quella dolce, clemente stagione dell'anno e quella

temperie richiamano alla terra la verzura, i fiori vezzosi o le foglie che paiono vezzose perché da tanto tempo celate alla

vista sotto la neve e la putredine, così l'aria piacente ed il calore avevano richiamato i tre giovani seduti sopra il poggio

assolato a godersi e la calda giornata e l'un l'altro. Erano infatti amici: due giovanotti, compagni di gioco dalla

fanciullezza, con una ragazza, la quale, essendo minore di due o tre anni, era stata oggetto del loro amore di adolescenti,

delle loro piccole galanterie rusticane e puerili, dei loro affetti in boccio, finché, cresciuti tutt'e tre e giunti alle soglie

della virilità e della piena femminilità, avevano tralasciato simili argomenti, forse perché ormai più occupati a pensarci.

I tre giovani erano figli di vicini, tutti abitanti a fianco della strada di Lexington, lungo un colle accidentato,

ripidamente erto alle loro spalle, il ciglio coperto da un bosco che salvo uno o due intervalli e interruzioni si spingeva

nel cuore del villaggio di Concord, il capoluogo della contea. Sulla falda del colle, secondo la tradizione, i primi coloni

del villaggio s'erano rintanati in certe caverne scavate a rifugio, come rondini o marmotte. Il declivio guardava a

mezzogiorno e la cresta, coi boschi che facevano corona, proteggeva dalle raffiche e dalle nevicate settentrionali sicché

la posizione era, per gl'inverni della Nuova Inghilterra, meravigliosa; la temperatura si manteneva più mite di molti

gradi su questo pendio collinare che non nelle pianure sguarnite di ripari, o lungo il fiume o in qualsiasi altra adiacenza

di Concord. Talché, nei cent'anni trascorsi dal primo insediamento, erano sorte via via nuove case ai piedi del colle ed il

prato dall'altra parte della strada, un terreno fertile, era stato messo a coltivo, e questi tre giovani erano figli dei figli dei

figli delle persone di riguardo che vi si erano insediate: Rose Garfield, abitante in una casetta la cui ubicazione è tuttora

segnata dallo sprofondare d'una cantina dove giusto la scorsa estate piantai dei girasoli che sollevassero i loro gran

dischi fuor dalla bassura ad attirare l'ape ed il colibrì; Robert Hagburn, dimorante in una casa di maggiori pretese, più

vicina di un cento metri al borgo, discosto dalla strada, nel più ampio spazio che il colle quivi concede ritraendosi,

interrotto com'è da una gola: alcuni olmi lo separano qui dalla strada, lasciando libero un appezzamento di cui qualche

persona incline per gusto innato alle attrattive pittoresche s'era impossessata. Quegli stessi olmi, o i loro discendenti,

ancora gettano una nobile ombra sulla medesima casa che la mano fatata di Alcott ha migliorato con quel suo tocco che

conferisce grazia, amabilità e naturale bellezza a scene di per se stesse di scarse pretese.

Il secondo giovanotto, Settimio Felton, abitava in una casetta di legno allora vecchia di qualche ventina d'anni,

alta due piani, coronata da un frontone, ma con due sole stanze per piano, addossata al colle retrostante, un edificio di

muri spessi, il cui progettista doveva possedere quel robusto senso della permanenza della vita che spinge a rafforzare le

dimore terrene, come illudendosi di poter continuare senza limite ad abitarle; in breve, la comune casa da agricoltori

benestanti della Nuova Inghilterra, conforme alla condizione della famiglia quale era stata per due o tre generazioni,

benché si tramandassero a onor del vero certe tradizioni secondo le quali alcuni antenati avevano condotto una vita di

meditazione e di studio, ricchi di tutta l'erudizione che possono largire le università d'Inghilterra. Non si sa se una

connaturata inclinazione allo studio fosse trasmessa a Settimio da quei notabili, né come mai le sue tendenze venissero

palesandosi così diverse da quelle della famiglia, la quale, a memoria del vicinato, s'era accontentata di seminare e

mietere il fertile fondo davanti alla casa; sta di fatto che Settimio aveva manifestato ben presto un gusto per lo studio. Si

era preparato all'università grazie al gentile aiuto del buon parroco; aveva seguito i corsi a Cambridge per mezzo dello

scarso denaro lascia togli dal padre e mercé la sua fatica d'insegnante e adesso eccolo laureato, desideroso di dedicarsi

al sacerdozio sotto gli auspici di quel reverendo e buon amico il cui soccorso ed il cui insegnamento gli avevano fatto

buon pro' .

Stavano i giovani, quella stupenda mattinata primaverile, sul fianco del colle, grato spettacolo di fresca vita,

spuntati come un verziere al calore del sole. La ragazza, assai avvenente, un po' lentigginosa, appariva appena

abbronzata, il volto però sfavillante e splendente di espressioni rapide e briose; una figurina esile dai movimenti

aggraziati e svelti; la bionda chioma mostrava una tendenza ad arricciarsi da lei probabilmente assecondata nei momenti

lasciati liberi dalle occupazioni do mestiche; una socievole e piacente donzella la giudica vano palesemente i due

giovanotti.

Si poteva ben immaginare che Robert Hagburn sarebbe stato il più adatto ai suoi gusti; era un giovane

rubicondo, atticciato, bello e di maniere franche, alto un metro e ottanta, celebre nel vicinato per vigore e maestria

atletica, precoce promessa di un uomo atto a ogni incombenza della vita rustica, e destinato nella piena maturità a

diventare consigliere municipale, diacono, deputato, colonnello. Quanto a Settimio a lasciarlo solo per un qualche

minuto, lo vedevi a testa china, meditabondo, gli occhi fissi su qualche scheggia o sasso o comune arbusto, sull'oggetto

più ordinario, insomma, neanche si trattasse della chiave e dell'indizio di qualche mistero; e allorché, per caso ridestato

da tali riflessioni, levasse gli occhi, ne emanava una sorta di perplessità, uno sguardo inappagato e frustrato, come se le

sue speculazioni non avessero approdato a nulla. Così appariva adesso, e intanto Robert e la giovane proseguivano la

gaia conversazione ma intorno ad un argomento così grave che, pur gaia, essa veniva punteggiata da lievi brividi, di

timore in lei e di eccitazione in Robert. Stavano discorrendo dei turbamenti sociali.

«Dice mio nonno», affermava Rose Garfield, «che mai sapremo tener testa alla vecchia Inghilterra, essendo gli

uomini oggi di fibra più debole che ai suoi tempi e le donne ancora più mingherline; così noialtre, a sentire lui, stiamo

come sul punto di svanire pur essendo, e lo dice guardandomi, un po' più vivaci». «Più leggere le nostre donne lo sono»

disse Robert Hagburn, «hanno la leggerezza delle Inglesi, ma più concentrata. Le conosco bene e posso dirlo. Quanto.3

agli uomini, o Rose, se hanno perduto una scintilla sola del coraggio e della forza portati dai loro avi inglesi dalla antica

patria, se hanno smarrito una sola buona qualità, che non sia subito stata sostituita da un'altra altrettanto buona o magari

migliore, allora per conto mio, meglio se la razza cessa di esistere. E la guerra che si dice prossima sarà comunque

un'ottima occasione per saggiarne la tempra. Che ne pensi, Settimio?».

«Pensare di che?» domandò gravemente Settimio, sollevando il capo.

«Ti si domanda se pensi che i tuoi compatrioti sono degni di vivere!» proferì spazientito Robert Hagburn. «Di

questo si sta discutendo».

«Non vale la pena di rispondere o di porvi mente» replicò Settimio fissandolo pensosamente, «siamo sulla terra

per così poco tempo, che, a parte i riflessi di questa vita su un'esistenza futura, poco importa se si vive o no».

«Poco importa?» disse Rose, dapprima sconcertata, poi mettendosi a ridere: «poco importa quando vivere è un

tal piacere, così grato e così dolce!».

«E con tante cose da fare», disse Robert; «rendere produttiva la campagna; operare fra gli uomini, e sen tirsi

felice tra le donne; giocare, lavorare, combattere e mostrarsi attivi in mille modi».

«Già, ma tosto vieni fermato, prima che la tua attività abbia conseguito un fine preciso», replicò Settimio

tetramente. «Se mi fosse stato proposto a queste condizioni e avendo facoltà di scelta dubito se avrei accettato di

esistere, è una tale fatica prepararsi a vivere e poi la vita non viene concessa; se ne coglie un inizio gravoso e basta».

«Trovate a ridire sulla Provvidenza, Settimio?» do mandò Rose, sentendo imporsi un sentimento solenne alla

sua indole allegra e ottimista. Poi scoppiò a ridere: «Ma Robert! Guardate che aspetto grave, neanche egli avesse già

vissute due o tre vite, e avesse imparato perfettamente il valore dell'esistenza. Per conto mio credo che mettesse conto di

nascere se non altro per vedere una mattina di primavera come questa; e Dio ci dona cose ancora migliori allorché le

presenti sono trascorse».

«Lo vogliamo sperare» disse Settimio, che era tornato a guardare in terra, «ma chi lo può sapere?» «Credevo

che tu lo sapessi» disse Robert Hagburn. «Sei stato all'università ed hai certamente studiato molte cose. Sei uno studioso

di teologia, inoltre, ed hai approfondito proprio questi problemi. E chi altri dovrebbe saperlo?».

«Voi, Rose e tu, siete altrettanto in grado di sviscerare questi temi», disse Settimio; «ogni certezza che si possa

raggiungere in merito sta alla superficie ed è, come deve essere, accessibile a chiunque. A volerci spingere più a fondo,

ci affatichiamo senza costrutto e diventiamo meno saggi a misura che procuriamo di esser lo di più. Se la vita fosse

tanto lunga da consentirci di vagliare minuziosamente queste questioni, allora, certo, varrebbe la pena! Ma è così

breve!».

«Sempre lo stesso lamento,» disse Robert. «Settimio, quanto vorresti vivere?».

«Per sempre» rispose Settimio. «Non è per niente un tempo eccessivo, rispetto alla quantità di cose che

desidero conoscere».

«Per sempre?» esclamò Rose, con un brivido di dubbio. «Ne verrebbero di pensieri, e alla fine si bramerebbe

un po' di riposo.

«Per sempre?» disse Robert Hagburn. «E che farebbe la gente che vuole prendere il nostro posto? Non sei

equo, Settimio. Vivi e lascia vivere! Circolare! Dam mi i miei settant'anni e via, settant'anni di tutto ciò che la vita ha da

offrire: fatica, godimento, sofferenza, lotta, combattimento e requie, mi basta la mia parte e sono contento così».

«Contento di lasciare tutto in uno stato imperfetto; contento d'esser nulla, come fosti prima di nascere?».

«No, Settimio, contento del cielo, finalmente raggiunto» disse Rose, passata dal riso ad una soave se rietà. «Ma

pensate come sembrerebbe consunta e brutta una di queste fresche lame d'erba se non declinasse e appassisse a tempo

debito, dopo essere stata tutta verde nella sua stagione».

«Certo, la mia bella Rose», disse Settimio, «un'erba immortale non è un bell'oggetto, a pensarci; ma mi

accontenterei d'una sol cosa: che voi foste immortale, quale siete a diciassette anni, così fresca, così rorida, con guance

rubiconde e capelli d'oro, così lieta, spensierata e gentile».

«Ma dovrò invecchiare, diventare adusta e rugosa, brizzolata e brutta» disse Rose un po' mestamente elencando

questi caratteri del suo futuro scadimento, «e allora forse mi considerereste del tutto perduta e finita. Eppure potrebbe

esserci in me una giovinezza nascosta, visibile per chi sinceramente mi amasse. O Settimio Felton! L'amore vero

vedrebbe con occhi sempre nuovi». E corse via all'improvviso, abbandonando lo, e Robert Hagburn se n'andò anche lui,

sicché il triplice nodo si sciolse e Settimio avanzò meditabondo come di consueto lungo il muro che fiancheggiava la

strada verso la sua dimora. S'era fermato per qualche istante sulla soglia, vagamente godendosi, forse, la luce ed il

tepore della giornata primaverile e l'aria soave, cui non era molto abituato, poiché trascorreva una buona porzione del

suo tempo in casa pensando e studiando; come la massima parte dei giovani studiosi, amava fin troppo il focolare e gli

piaceva rendere la vita il più possibile artificiale mercé il calore del camino e la luce delle lampade, sì da accordarla

all'atmosfera intellettualmente e moralmente artefatta che ricavava di libri, invece di vivere sanamente all'aria aperta e a

contatto col prossimo. Eppure sentiva il piacere di farsi riscaldare tutto da quel calore naturale il cui eccesso gli pesava

sulle palpebre, e doveva pur ammettere di provare gioia ed allegria dinanzi a quell'onda di luce mattutina che in vestiva

obliquamente il colle. Stava fermo così quando sentì una mano amica posarglisi sulla spalla ed ecco, vide, alzando lo

sguardo, il sacerdote del villaggio, il vecchio amico, grazie ai cui consigli ed aiuti egli aveva potuto seguire il suo

impulso, frequentando l'università invece di condurre una vita frustrata e inappagata nel campo prospiciente alla casa.

Era un uomo di mezza età o un poco più anziano, d'aspetto sagace e buono; l'esperienza, la conoscenza intima,

acquistata in tutta una vita, delle tante preoccupazioni dei suoi parrocchiani, spiccavano in lui più dell'erudizione che lo

aveva reso celebre fin da giovane. Abbronzato come chi lavori di quando in quando la sua terra, aveva un piglio.4

familiare e semplice, che sapeva, all'occorrenza, tramutare nel tratto forbito di chi aveva conosciuto un mondo ben più

raffinato di quello che ora lo circondava.

«Bene, Settimio», disse il sacerdote con il suo fare gentile, «sei giunto a qualche conclusione a proposito

dell'argomento di cui si è parlato?».

«Soltanto che ogni giorno che passa mi sento meno propenso ad abbracciare il ministero a cui per tanti anni ho

mirato. Non mi ritengo degno dell'altare». «Ma sicuro, nessuno lo è mai», rispose il sacerdote, «però, se mi è lecito

fidarmi del mio giudizio, tu hai molte qualità intellettuali che dovrebbero renderti adatto alla cari ca. In te c'è qualcosa

del carattere puritano, Settimio, che ti proviene dai santi uomini della tua stirpe, ad esempio una tendenza profonda alla

meditazione, che s'intona a codesta fronte severa, un'inclinazione a riflettere sulle cose occulte, una propensione

all'indagine pensosa, tutto ciò e molta grazia per giunta, indicano che sei in germe un uomo capace di servire Dio. La

tua fama di studioso è grande all'università e non hai alcuna disposizione a occuparti di faccende mondane». «Ma,

reverendo» disse Settimio abbassando il suo volto severo, «manca qualcosa dentro di me».

«La fede, forse» rispose il sacerdote, «o almeno, così credi». «E non posso saperlo, io?» domandò Settimio.

«Per adesso è difficile che tu lo sappia» disse l'amico, «studia per il sacerdozio; indirizza ad esso i tuoi

pensieri; prega; chiedi la fede e presto scoprirai di aver la. Dei dubbi a volte affioreranno, questo capiterà sempre a tutti

i sacerdoti. Ma la tua disposizione dominante sarà la fede».

«Credo» osservò Settimio «che la disposizione do minante, cioè la più frequente, non sia quella di cui ci si

debba fidare. Si tratta di abitudine, di formalità, del la sottile pellicola che copre la realtà intima e che ben di rado

permettiamo venga lacerata. È piuttosto il dubbio, simile ad un serpente, a farci intravedere la realtà nascosta, in certi

istanti che sono cento volte più reali degl'inerti, quieti momenti di fede, o di ciò che chiamate con questo nome».

«Mi dispiace per te» disse il sacerdote; «eppure per un giovane del tuo carattere, dirò anzi, della tua capacità e

con la tua esigenza di approfondire i motivi della fede, codesti turbamenti non sono affatto sorprendenti. Gli uomini

come te hanno da lottare per la loro fede. Lottano anzitutto per ottenerla e in seguito, costantemente, per mantenerla

intatta. Il Demonio ten zona diuturnamente con loro e spesso sembra aver la meglio».

«Sì» replicò Settimio, «però adesso adopra armi mortali. Se mi affrontasse con l'acciaio freddo e puro

d'un'argomentazione spirituale potrei vincere o perdere, senza sentire che con ciò tutto è perduto; ma egli, per così dire,

afferra una massa di terra, con pietroni e fango, terriccio e immondizia, e me la scaglia addosso soverchiandomi e resto

sepolto sotto».

«Come può essere?» disse il sacerdote. «Parlamene con più semplicità».

«Non è forse possibile» domandò Settimio, «avere un tal sentimento della mirabile struttura e rispondenza

interna di questo mondo materiale da non dover più postulare nè credere in qualcosa di spirituale? Come è meraviglioso

vederlo tutto vivido in questa giornata primaverile, tutto in crescita, in boccio! Forse che lo esauriamo nella nostra breve

vita? Non ce ne basterebbero cento, mille, di vite. L'intera razza dell'uomo, viva dall'inizio del tempo, non è pervenuta,

benché tanto numerosa e molteplice e benché durata così a lungo, a conoscere sia pure un poco il mondo che abita. E

tutto questo ricco mondo è sprecato per noi, che ci viviamo un istante! Ben scarso lavoro è stato compiuto dall'inizio del

mondo in qua! Infatti non abbiamo tempo. Non ci è dato alcun vero insegnamento perché si è strappati allo studio prima

ancora d'imparare l'alfabeto. Il mondo così com'è, ve lo confesso francamente, caro pastore, mi pare un gran fallimento

perché non viviamo abbastanza a lungo».

«Ma l'insegnamento viene continuato in un ulteriore stato dell'essere!».

«Non certo l'insegnamento che cominciamo a ricevere quaggiù» disse Settimio. «Tanto varrebbe educare un

fanciullo in una foresta primordiale per insegnargli a vivere in una corte europea. No, la caduta dell'uomo, di cui ci parla

la Scrittura, mi sembra dimostrata dal penoso accorciamento dell'esistenza terrena, che rende in ogni modo ridicola

questa nostra vita quaggiù».

«Bene, Settimio» rispose mestamente il vecchio, ma non come chi sia scandalizzato da cose mai prima udite, a

devo lasciare che tu ti apra la strada attraverso a codesta forma di miscredenza come meglio saprai, so in fatti che dovrai

raggiungere con i tuoi soli sforzi l'altra sponda della palude. Parleremo di più la prossima volta. Ti stai esaurendo, mio

giovane amico, causa l'eccesso di studio e di ansietà. Sarebbe bene che tu vivessi di più, per adesso, in questo mondo

terrestre che apprezzi tanto. Non puoi prendere interesse alle condizioni della patria, alla lotta che è per scoppiare, la cui

voce risuona così rauca e prossima? Esci dai tuoi pensieri, re spira un'altra aria».

«Tenterò» disse Settimio».

«Fallo» disse il sacerdote, dandogli la mano, «e in poco tempo sentirai i benefici del cambiamento».

Strinse con benevolenza la mano del giovane congedandosi, e Settimio rientrò in casa, voltò a destra, se dette

nel suo studio dove, dinanzi al camino, stava il tavolo coperto di carte e di libri. Sugli scaffali contro le pareti altri libri,

non numerosi ma d'aspetto ponderoso, dei quali parecchi ereditati da dotti antenati e da lui riportati alla luce dopo che

erano rimasti a lungo accatastati in stanzucce polverose; libri di buoni ed eruditi teologi, la cui saggezza egli aveva, con

l'aiuto del Demonio, volto al male, leggendoli alla luce del fuoco infernale. Invero Settimio aveva fatto intravedere al

sacerdote soltanto uno scorcio parziale dello stato in cui versava la sua mente. Non era un principiante del dubbio; anzi,

gli sembrava di non essere mai stato altro che un dubbioso ed un critico fin da ragazzo, non avendo fede in nulla,

benché un sottile velo di riverenza l'avesse trattenuto dall'indagare certe cose. E adesso il nuovo, strano pensiero che la

terra dovesse essere del tutto sufficiente all'uomo che venisse ad essa adattato, gli si ripresentava di continuo e gliene

nasceva la sensazione, di cui non s'era mai reso conto prima, che almeno lui avrebbe potuto anche non dover morire

mai. Non era un sentimento personale, trattandosi d'un istinto di cui solo l'interpretazione era sbagliata: abbiamo saldo.5

dentro di noi il senso d'un principio immortale e riferiamo erroneamente questa intuizione verace alla vita presente ed al

corpo invece d'intenderla rettamente come una promessa d'immortalità spirituale.

Così Settimio sollevò lo sguardo al di sopra dei suoi pensieri, dicendo con orgoglio:

«Perché dovrei morire? Non posso, se sono degno di vivere. E se in questo attimo affermassi che non voglio

morire se non a distanza di secoli, alla consumazione del mondo? Che muoiano gli altri, se preferiscono o se cedono;

ma chi è abbastanza forte, viva!».

Tuttavia dopo questa ventata d'umore eroico, l'accaloramento s'attenuò ed il povero Settimio spese il resto della

giornata secondo il solito, compulsando i suoi volumi, dove tutti i significati parevano vecchi ed ammuffiti, simili alle

foglie pressate che talvolta ne cade vano ad aprirli, brune, fragili e senza linfa, proprio come i pensieri che, al momento

in cui gli autori li avevano raccolti, erano sembrati di colore così acceso e pieni di vita. Poi cominciò a capire che un

qualche principio di vita doveva essere stato lasciato fuori del libro sicché agli sparsi pensieri mancava proprio ciò che

aveva conferito a ciascuno il suo unico valore. Poi sospettò che il modo vero di vivere e adeguarsi ai fini della vita non

fosse già di raccogliere dei pensieri nei libri, dove diventavano così aridi, ma di vivere e continuare ad agire colmi di

verde sapienza, sempre maturando non già massime tronche e secche, ma una saggezza pronta per l'uso quotidiano,

come una fonte viva, e pensò che, per essere da tanto, occorreva vivere a lungo sulla terra, imbevendosi di tutti

gl'insegnamenti che essa impartiva e non già morire subito dopo aver acquistato una qualche verità superficiale; proprio

perciò bisognava vivere tanto più a lungo, e si doveva applicare la saggezza cosí ottenuta per il bene dell'intera umanità,

sì da darle ulteriore incremento.

Ogni cosa rifluiva nel vortice forte e strano in cui era stata tratta la sua mente: tutti i suoi pensieri puntavano in

quella direzione. Così sedeva rimuginando nel suo studio finché la vecchia dalla voce chioccia, una sua zia che gli

faceva da governante e da padrona di casa, lo chiamò per il pranzo, rimproverandolo perché sembrava concedere scarsa

attenzione al piatto di radicchielle primaticce raccolte per lui; tuttavia la severità era temperata dal pensiero del futuro

rango ecclesiastico del nipote e dal fatto che egli era già baccelliere. La voce della vegliarda, con quei suoi discorsi a

vanvera risuonava all'esterno di Settimio, mentre lui le badava appena e alla fine il pranzo fu terminato e Settimio

allontanò la sedia dalla tavola per andarsene.

«Settimio, nipote mio» disse la vecchia, «hai cominciato il pasto senza chiedere la benedizione, ti alzi senza

una resa di grazie, tu, che fra poco sarai ministro del Verbo».

«Dio, benedici il pasto» rispose Settimio, a mo' di benedizione, «e fa' che ci dia forza per la vita che ci destini.

Grazie a Dio per il nostro cibo» soggiunse a mo' di resa di grazia, «e che possa diventare in noi por zione d'un corpo

immortale».

«Così va bene, Settimio», disse la vecchia. «Ah, sarai possente dal pulpito e saprai tenere alto il nome del

bisnonno, il quale dicono che fece avvizzire le foglie sugli alberi con la furia del suo improperio contro i vizi. Certuni

dicono, va da sé, che una gelata precoce gli venne in aiuto».

«E la prima volta che ne sento parlare, zia Keziah» disse Settimio.

«Ma sicuro», replicò la zia. «Un uomo muore e la sua grandezza si estingue come non fosse mai esistita, e la

gente se ne rammenta soltanto quando ne vede la pietra tombale sopra le vecchie ossa aride, e dice che fu un buon uomo

ai suoi tempi».

«Quanta verità nelle parole di zia Keziah!» esclamò Settimio. «E come mi è odioso pensarci, prevedere questa

indifferenza verso i morti! Qualunque vivo trionfa dei morti, stesi lì, poveri e inermi, sotto il terriccio: un pizzico di

polvere, un mucchio d'ossi, un fetore! Il pensiero mi ripugna! Non dovrà essere così!».

Stranamente ogni minimo incidente lo riconduceva a quell'unico argomento che si impadroniva con tanta

veemenza della sua mente; ogni via ve lo riconduceva ed egli lo interpretava come un'indicazione che la natura aveva

inteso, per mille modi, additarci questa somma verità: che la morte era una disgrazia esteriore, un prodigio, una

mostruosità a cui l'uomo era soggiaciuto sol tanto per un suo difetto, tanto che perfino adesso, se egli riacquistasse una

parte della sua forza originale, potrebbe vivere per sempre e ridersi della morte.

La nostra è una storia interiore, che s'occupa il meno possibile di avvenimenti esterni, questi li tocca soltanto

nei casi inevitabili, sì da delineare per mezzo loro la vicenda d'una mente turbata da certi errori. Anche potendo non

vorremmo creare un ambiente vivace e pittoresco intorno alla traccia narrativa, tuttavia dobbiamo richiamare le

circostanze del tempo in cui questa storia interiore si svolgeva. Diremo dunque che quella notte corse un grido d'allarme

per tutta la trafila di città e villaggi raccolti attorno a Boston e via via più radi verso il litorale ed ai più selvaggi margini

delle foreste. Cavalieri attraversarono al galoppo le file di fattorie gridando: «All'armi! All'armi!». Si vociferava di

truppe in marcia come sogni nella mezzanotte. Attorno alle rustiche cappelle udivi rulli di tamburo e convenivano i

contadini armati. Per l'intera notte si marciò, si fece l'appello, ci fu ressa; e sulla strada di Boston, un fitto rintocco di

scarponi militari s'inoltrava sempre più nel l'entroterra che non aveva conosciuto più il tumulto del la guerra da quando

l'aveva calcata l'indiano.

Settimio udì e seppe, come tutti, che la guerra si avvicinava. «Che stolti sono gli uomini!» esclamò levandosi

dal letto e contemplando le stelle avvolte di foschia; «non vivono nemmeno quel tanto che sarebbe necessario per

conoscere il valore ed il senso dell'esistenza. Se lo conoscessero si metterebbero d'accordo per vivere a lungo, invece di

buttar via vite a migliaia, come fanno. E che importa un po' di tirannide in una vita così breve? Che importanza può

avere la forma di governo per creature così effimere?».

Allorché l'aurora diventò più chiara, quei suoni, quel clamore, o qualcosa che era nell'aria e suscitava il cl

more, s'infittirono tanto da farsi sentire da Settimio perfino nel riparo della sua solitudine. Aleggiava nell'atmosfera.6

l'uragano, la concitazione selvaggia, un gesto imminente. Gente percorreva di corsa, a frotte, la strada di solito deserta,

armi alla mano: la vecchia carabina da caccia con cui i puritani avevano tirato alle anatre sul fiume e sullo stagno di

Walden; l'archibugio pesante che forse aveva steso a terra uno degl'indiani di Re Filippo; il vecchio fucile che aveva

tuonato contro i francesi di Louisburg o Quebec. Cacciatori e massari, tutti si incitavano a vicenda. Si viveva un bel

momento c'era una affinità più stretta, una più intima simpatia fra uomo e uomo: un senso della bontà del mondo, del la

sacralità della patria, della sublimità della vita la qua le tuttavia contava ben poco a petto della verità e dei supremi

princìpi; si soppesava la parte materiale e l'eterea e si pensava che la prima non valesse la pena d'esse re presa in

considerazione, benché ne dipendesse in buona misura la soluzione della crisi. La forza bruta era nobilitata, si nutriva il

sentimento che in essa ci fosse un lato divino, spiravano eroismo i luoghi della vita più ordinaria quasi che da ieri a oggi

tutti fossero stati tra sfigurati. Oh istante sublime, eroico, trepido, quando l'uomo si sente quasi un angelo alla soglia di

atti pur così maligni all'aspetto! Oh strana estasi di prima della battaglia! Adesso ne sappiamo qualcosa di quel tempo di

guerra, noi che abbiamo visto l'appello delle truppe contadine sul sagrato ed alle stazioni ferroviarie, udito il tamburo ed

il piffero, visto i congedi, le facce familiari che quasi non si riconoscevano nemmeno più da quando se ne era scoperto

l'eroismo e si respirava in una più nobile sfera grazie a loro; con umido ciglio li si ringraziava fin nell'intimo dell'anima

nostra per aver ci insegnato come tuttora la natura sia capace di attimi eroici; si è sentito come un grande empito sollevi

un popolo, coinvolgendo ogni spettatore, anche il più freddo, apatico, indifferente, innalzandolo alla religione,

portandolo a unirsi a ciò che diviene un atto di devozione, una preghiera, anche se lui forse non vi consente che a metà.

Settimio non riusciva a studiare in una mattinata simile. Provò a dirsi che non aveva niente a spartire con

quell'eccitazione, che la sua vita studiosa lo teneva in disparte, che il suo ministero futuro era di pace; ma, di cesse pure

a se stesso quel che voleva, sentiva un tremore, uno slancio ribollente, un ronzio nelle orecchie e la pagina aperta

riluceva abbagliandolo.

«Settimio! Settimio!» gridò la zia Keziah, gettando lo sguardo nella camera, «in nome del cielo, te ne starai

dunque seduto qui mentre le giacche rosse inglesi avanzano per bruciarci la casa con noi dentro? Mi toccherà dunque

cacciarti a colpi di scopa? Vergogna! Vergogna, ragazzo mio!».

«Sicché stanno venendo, zia Keziah?» domandò il nipote. «Ebbene, non sono uomo d'armi».

«Certo che vengono. Hanno saccheggiato Lexington, trucidato gli abitanti e incendiato il municipio. Sono cose

che riguardano anche un parroco, quale tu ritieni di essere. Esci, esci ti dico, e va a sentire le ultime no tizie!».

O mosso da queste esortazioni o dalla sua curiosità repressa, sta di fatto che alla fine Settimio uscì di casa, sia

pure con la riluttanza che trattiene e impedisce coloro che nutrono pensieri e interessi divergenti da quel li del mondo in

genere; comunque uscì, con una strana sensazione, ma tuttavia provando l'impulso di scagliarsi nel passionale tumulto

di quel momento. Era una mattina stupenda, tutt'insieme primaverile ed estiva. Anche se non ci fosse stato altro da

pensare o fare sarebbe bastata una tale mattina a infondere vitalità, respirarne l'atmosfera voleva dire assorbirne

l'esaltazione.

Settimio svoltò in direzione del villaggio proponendosi di mescolarsi alla calca sul sagrato, cogliendo le voci

che circolavano per l'aria e prendevano via via forma di racconti.

Allorché passò accanto alla casetta di Rose Garfield, questa gli corse incontro dalla soglia con aria impaurita,

eccitata e tuttavia quasi felice, e stranamente graziosa, più graziosa che mai in virtù d'un qualche ornamento che la fretta

aveva suggerito meglio di quanto l'avrebbero potuto i più lenti indugi.

«Settimio... signor Felton» ella gridò; chiedeva no tizie a lui che, fra tutti i vicini, era all'oscuro di tutto, ma

proprio questo denotava l'importanza che egli aveva per lei. «Pensate davvero che siano per arrivare i sol dati inglesi?

Che faremo, ahimè? Non andrete mica anche voi al villaggio, lasciandoci sole?».

«Non so se vengano, Rose» disse Settimio, fermandosi ad ammirare la fresca bellezza della giovinetta, il cui

fascino era moltiplicato dalla concitazione che, inoltre, la rendeva doppiamente libera di modi con lui; è certo che ogni

frattura nel corso ordinario degli eventi riscuote le donne inducendole ad abbandonare le loro maniere riservate,

abbattendo le barriere, avvicinandole pericolosamente al mondo. «Siete qui sola? Non sarebbe meglio che vi rifugiaste

nel villaggio?».

«Abbandonando la mia povera nonna, costretta a letto!» gridò irosamente Rosa. «Sapete che non posso,

Settimio. Ma credo di non correre pericoli. Andate pure al villaggio, se volete».

«Dov'è Robert Hagburn?» domandò Settimio.

«Al villaggio, da un'ora, con la vecchia spingarda del nonno in ispalla», disse Rose; «fin dall'alba ha lavo rato a

verificare le pallottole». «Rose, io resto con voi» disse Settimio.

«Oh, cielo, eccoli, ne sono certa!» gridò Rosa. «Guardate quel polverone. Dio mio! Un cavaliere al galoppo!».

Infatti, sullo stradone di cui si scorgeva un largo tratto, udirono uno scalpiccìo di zoccoli e videro una nuvoletta

di polvere avanzante a ritmo di galoppo, che rivelava, a mano a mano che s'avvicinava, un paesano a capo scoperto, in

maniche di camicia, chino sul collo del cavallo, cui dava con gusto sferzate sui fianchi per incitarlo a quella velocità

inconsueta. Nello stesso tempo, guardando Rose e Settimio, levò la voce in tono strano e alto, comunicando il suo

tremore e la sua eccitazione a chiunque l'udisse:

«All'armi! All'armi! All'armi! Le giubbe rosse! Le giubbe rosse! All'armi! All'armi!».

E lasciando fluttuare come un pennone quella scia di suoni l'ansioso cavaliere si precipitò verso il villaggio.

«Dio mio, che faremo?» gridò Rose, gli occhi colmi di lacrime, ma ballando per l'eccitazione. «Stanno

venendo! Vengono! Odo il tamburo e i pifferi!»..7

«Credo di sì» disse Settimio, le guance ora imporporate ora soffuse di pallore, non per timore, ma a causa

dell'ineludibile tremore fra doloroso e piacevole del mo mento. «Ascolta, è il suono argentino del piffero! Stanno

arrivando!».

Tentò di convincere Rose a nascondersi in casa, ma la giovane non si lasciò persuadere, aggrappandoglisi in

una maniera che lo lusingava e rendeva tutt'insieme per plesso. Inoltre, con tutta la sua paura, le restava un bel po' di

coraggio e parecchia curiosità, per giunta, di vedere quelle «giubbe rosse» di cui aveva udito storie sì terribili.

«Bene, bene, Rose» disse Settimio»; certamente si può restar senza paura, tu donna ed io che per professione

dovrei portare pace e buona volontà a tutti gli uomini. Si dica di loro ciò che si vuole, non possono avere la consegna di

far strage. Ce ne staremo qui tranquillamente, e vedendo che non li temiamo, capiranno che non abbiamo cattive

intenzioni verso di loro».

Così se ne rimasero un po' fuori della porta, all'angolo del pozzo e tosto videro una coltre di polvere da cui

spuntavano baionette splendenti; ed ecco che una banda militare, fino a quel momento silenziosa, ripigliò con pifferi e

tamburi, con il passo ordinato di migliaia di piedi che battevano il tempo; poi giunse la colonna, massicciamente in

moto, e le «giubbe rosse» dall'aspetto stanco dopo una lunga marcia notturna, impolverati, con le ghette sporche, madidi

del sudore colato dalle loro ciocche incipriate. Tuttavia questi inglesi rubizzi e vigorosi marciavano con veemenza,

come gente che ha solo bisogno d'una mezz'ora di riposo, d'una buona colazione e d'una birra per riaffrontare il mondo.

I loro volti non svelavano alcun rancore, ma apparivano sol tanto grevi, rustici, buoni, umani.

«Santo cielo, signor Felton» sussurrò Rose, «perché mai dovremmo sparare su di loro e loro su di noi? Paiono

gentili anche se alla mano. Ognuno di loro ha una madre e delle sorelle, immagino, come i nostri». «È la cosa più strana

del mondo, che si possa pensare di ucciderli» disse Settimio, «la vita umana è così preziosa».

Mentre oltrepassavano la casetta, il comandante ordinò l'alt, per mettere le truppe in miglior condizione con un

po' di riposo e facendo riprender loro fiato prima dell'ingresso nel villaggio, dove occorreva incutere l'impressione più

imponente possibile. Durante la breve sosta, alcuni soldati s'avvicinarono al pozzo dove sta vano Rose e Settimio e

calarono un secchio per dissetarsi. Un giovane ufficiale, ragazzo petulante, bellissimo, di maniere gaie e balde, avanzò.

«Offrimi un bicchiere, bellezza», egli disse dando un buffetto alla guancia di Rose, con una grande libertà e

rimanendo tuttavia in modo imprecisabile al di qua dell'insolenza, «o una coppa o un recipiente qualsiasi, e in compenso

avrai un bacione».

«Signore, alto là!» disse Settimio animosamente; «è da codardo insultare una donna».

«Non ho intenzione di insultarla» rispose il bel giovane ufficiale, improvvisamente strappando un bacio a Rose

prima ancor che ella potesse tirarsi indietro. «Ma se lo ritieni un insulto, mio buon amico, sarà meglio che ti armi e che

ti pigli la soddisfazione di spararmi da dietro una siepe».

Prima che Settimio potesse replicare o agire, e la sufficienza del giovane inglese rendeva ben difficile per un

solitario privo d'esperienza come lui raccappezzarsi sul da fare o sulle cose da dire, ecco che un rullo del tamburo

richiamò i soldati ai loro ranghi. Il giovane ufficiale si affrettò a tornare rivolgendo uno sguardo ridente a Rose ed un

leggero cenno di sfida a Settimio mentre i tamburi battevano la marcia e le truppe avanzavano.

«Che impertinenza!» disse Rose, il cui rossore indignato l'abbelliva tanto da scusare quasi l'oltraggio.

Non è facile capire come Settimio l'avrebbe potuta difendere eppure egli si sentiva inauditamente offeso e

umiliato al pensiero che quell'ingiuria fosse avvenuta mentre Rose stava sotto la sua protezione ed egli ne ave va la

responsabilità. Inoltre, in un modo o nell'altro, egli era adirato con lei perché aveva subito un torto, benché ciò fosse

irragionevole al massimo; tutto fu più presto fatto che detto.

«Meglio che vi ritiriate in casa adesso, Rose» egli disse «a guardare la nonna inferma».

«E voi che cosa farete, Settimio?» ella domandò.

«Forse anch'io rincaserò» egli rispose. «O forse accoglierò il consiglio di quella giubba rossa superba,

sparandogli da dietro una siepe».

«Ma non lo uccidete; forse ha una madre ed una fidanzata, il bell'ufficialetto» mormorò Rose fra sè e sè.

Settimio entrò in casa e sedette per qualche ora nel lo studio, in quello stato d'animo sgradevole che un uomo

meditativo prova facilmente allorchè il mondo in torno a lui è in uno stato di intensa attività per la quale non riesce a

sentire alcun moto di simpatia. Era come se un corso d'acqua gli scorresse accanto, e non potesse bagnarlo neanche se

egli vi si tuffava dentro. Si sentiva come stranamente in disarmonia, avrebbe dato chissà che cosa per trovarsi in perfetto

accordo con la razza umana, oppure viceversa per esserne separato in eterno.

«Ne sono del tutto rescisso. È mia sorte essere esclusivamente uno spettatore della vita, osservandola come chi

non ne fa parte. Non è forse giusto, perciò, dato che non ne condivido i piaceri o la felicità, essere libero dalle sue leggi,

dalla sua brevità? Come sono freddo, mentre vortica attorno a me questo gorgo di emozioni collettive! È come se non

fossi nato di donna!».

Così avvenne che, traendo folli deduzioni dai fenomeni mentali e sentimentali comuni a coloro che, per

qualche interiore morbosità, sono come esclusi dal mon do, Settimio continuò a tornare su quella strana idea

dell'immortalità che di recente s'era impadronita di lui. Eppure sbagliava a credersi freddo e privo di simpatia per la

febbre patriottica che ferveva nei suoi comp atrioti. Inquieto come una fiamma, non riusciva a fissare i pensieri sul libro,

né sapeva star fermo sulla sedia ma continuava a passeggiare avanti e indietro, mentre da una finestra spalancata

venivano rumori ai quali la sua fantasia dava le spiegazioni più diverse. Ora era un tamburo lontano, ora delle grida, di

quando in quando una scarica di moschetti pareva venire molto da più lontano che dal villaggio; un rombo uniforme,

quindi una scarica frastagliata e poi una serie di fucilate sparse..8

Incapace ormai di serbare la sua innaturale indifferenza, Settimio afferrò il fucile, si precipitò fuori,

s'arrampicò su per l'erta dietro casa, donde poteva spingere lo sguardo verso il villaggio fino a dove una curva celava la

strada dall'andamento irregolare. Era vuota, non la percorreva un solo viandante.

Tuttavia sembrava che da quella parte ci fosse una certa confusione, un tumulto invisibile e indecifrabile ora

suggerito da vaghi suoni, ora silenzioso. Ascoltando avidamente, tuttavia, immaginò alla fine il rullo dell'adunata, poi

gli parve che la truppa avanzasse verso di lui, preceduta da un altro cavaliere a briglia sciolta, all'apparenza lo stesso

genere di messaggero che prima era passato davanti a casa col suo tetro grido d'allarme; poi apparvero alcuni contadini

in ordine sparso che si facevano strada per i campi, il fucile in mano. Quindi scorse lo schieramento ordinato dei soldati

inglesi, che occupavano tutta la strada con il loro allineamento e venivano avanti con la solita fermezza benché a passo

celere, ed egli s'immaginò di notare che gli ufficiali si guardassero d'attorno con occhiate guardinghe. Mentre osservava,

uno sparo risuonò secco dal pendio collinare fino al villaggio; il fumo s'arricciò verso l'alto e Settimio vide un uomo

barcollare: ciò era così simile ad un omicidio che non ci vedeva nessuna differenza; gli tremarono le ginocchia, il fiato

gli si fece corto non per terrore, ma a causa di un raccapriccio del tutto inedito.

Qualche altro sparo giunse quasi simultaneamente dalla vetta boscosa, ma senza che egli ne notasse un qualche

effetto. Quasi allo stesso momento una compagnia d'inglesi si staccò dal grosso operando una con versione e

s'arrampicò, correndo, su per il colle, sparando nel bosco e nel fitto di cespugli che lo copriva. Qualche sparo sparso,

non si capiva da parte di chi né con quale effetto, mentre il grosso dei nemici avanza va lungo la strada. Adesso s'erano

accostati tanto che Settimio si sentì assalire stranamente dall'idea che avrebbe potuto, con il fucile che teneva in mano,

sparare proprio nel mezzo dello schieramento, scegliendo qualsiasi di quegli uomini ormai nemici come vittima. Com'è

strana, stranissima questa folle, profonda passione che in noi la natura ha impiantato, di procurare la morte dei nostri

simili, passione che convive con l'orrore! Settimio puntò e poi alzò il fucile; notò un ufficiale a cavallo che sembrava il

comandante in capo, e che egli sapeva di poter uccidere. No! Non voleva farlo per niente, ma era una tentazione ben

forte. In un attimo il cavallo avrebbe spiccato un salto, l'ufficiale sarebbe caduto nella polvere dello stradone,

sanguinante, boccheggiante, respirando a rantoli, senza più respiro.

Mentre il giovane, in così inconsuete condizioni se ne stava ad osservare la marcia delle truppe, udì un rumore

di fronde agitate ed un suono di voci e subito intuì che il gruppo separatosi dal grosso e inoltratosi su per il colle stava

dunque camminando sul lungo crinale che, salvo qualche interruzione, si spingeva fino a un miglio dal villaggio. Una di

quelle interruzioni distava assai poco dal punto dove era Settimio. Facevano da copertura per impedire che la gente in

rivolta si avvicinasse al grosso tanto da poterlo colpire. Egli guardò su e vide che il distaccamento britannico si

precipitava nella gola che interrompeva il crinale per poi risalirla e che sarebbe passato giusto sopra il punto dove egli si

trovava; bastava che si scostasse portandosi appena appena sotto i cespugli per tenersi nascosto. Così si fece da parte e

dal suo nascondiglio, non senza un'accelerazione del respiro, osservò l'avvicinarsi del gruppo. Badavano più al terreno

che li divideva dal grosso che a quel fitto di betulle, pini rossi, sommacchi e querce nane con le foglie lì lì per

germogliare, che si stendeva dalla banda opposta a dove Settimio stava rintanato.

[Descrivere l'impressione che gli fecero le loro facce, mentre lo rasentavano; come gli sembravano strane].

Tutti erano passati, tranne un ufficiale di retroguardia che forse era stato attratto da qualche minimo

movimento di Settimio, da un fruscìo nel cespuglio, poiché si trattenne, fissò un punto e lo prese di mira col moschetto.

«Salta fuori o sparo» disse.

Non per evitare la moschettata, ma perché la sua virilità non si sentiva di starsene rannicchiata nel buio di

fronte ad un nemico allo scoperto, Settimio subito balzò fuori e si trovò a cospetto del medesimo bell'ufficialetto col

quale aveva scambiato quelle parole aspre dopo l'of fesa a Rose Garfield. Il feroce sangue indiano di Settimio ribollì

dentro di lui, eccitandolo all'omicidio.

«Ah, sei tu!» disse l'ufficialetto con un sorriso altero. «Sicché volevi seguire il mio consiglio e spararmi da

dietro un cespuglio? Meglio così. Avanti, abbiamo da regolare prima di tutto la gran lite fra me, soldato del re e te,

ribelle; poi la nostra faccenduola privata a causa della bella ragazza. Scambiamoci una fucilata che valga per i due

motivi insieme!».

Così bello, così avvenente, d'una gioventù in boccio era l'ufficialetto; c'era una petulanza franca e gaia nel suo

tratto, sembrava che ci fosse ben poca malvagità vera in lui: si metteva così generosamente sullo stesso piano del rustico

Settimio che questi, di solito così morboso e lugubre, mai aveva sentito una benignità verso il prossimo maggiore di

quella che provava adesso per il giovanotto.

«Non sento alcuna inimicizia nei tuoi confronti», disse; «vattene in pace».

«Nessuna inimicizia?» rispose l'ufficiale. «E allora che facevi armato di fucile tra gli arbusti? Ho intenzione di

compiere la mia prima azione di guerra a spese tue, perciò butta il fucile e seguimi come prigioniero».

«Prigioniero!» gridò Settimio, e tornò a risvegliarsi in lui la ferocia indiana, rialzando il suo capo maligno

come un serpe. «Mai! Se mi vuoi dovrai pigliarti il mio cadavere».

«Toh, vedo che hai del coraggio, solo che ci vuole parecchio a provocarlo. Forza, questa fra noi è una bella

sfida. Portiamola a fondo. Fermo lì dove ti trovi! Io darò l'ordine. Pronti, mirare, fuoco!».

Mentre l'ufficialetto pronunciava le ultime tre parole, i due puntarono i moschetti, mirarono, spararono.

Settimio sentì come una puntura di tafano passargli sulla tempia: la pallottola dell'inglese lo sfiorava, ma con suo

stupore e orrore (perché tutto gli sembrava irreale) vide l'ufficiale che sobbalzava, lasciava cadere il fucile, barcollava

verso un albero con la mano sul petto. Il ferito tentò di tenersi in piedi, ma, non riuscendoci, fece un cenno a Settimio..9

«Avanti, mio buon amico» disse, mentre il suo sor riso giocoso e petulante gli riaffiorava per un attimo: «E il

mio primo e ultimo combattimento. Deponimi il più dolcemente che puoi sulla madre terra, nostra madre comune;

siamo fratelli e questo potrebbe essere un atto di fraternità anche se non ne ha l'aspetto e non dà fraterne sensazioni. Ah!

Che fitta!».

«Buon Dio» esclamò Settimio. «Non ne avevo intenzione, o almeno non albergava in me malizia alcuna verso

di te!».

«E neanch'io ne nutrivo verso di te» disse il giova ne. a Era un gioco da ragazzo e la conclusione è che muoio

ragazzo invece di vivere in perpetuo, come forse avrei potuto».

«Vivere in perpetuo!» ripeté Settimio, la cui attenzione venne fermata, in quel frangente che gli mozzava il

fiato, da parole che facevano rintoccare così stranamente il suo pensiero dominante.

«Sì, ma ne ho perduto l'occasione» disse il giovane ufficiale. Poi, mentre Settimio l'aiutava a coricarsi su di un

rialzo formato da un ceppo in decomposizione e sepolto nella terra, a Grazie, grazie. Se almeno tu mi potessi chiamare

indietro un camerata che raccogliesse le mie ultime parole. Ma scordavo: tu mi hai ucciso ed essi ti toglierebbero la

vita».

Invero così commosso e stupito era Settimio che forse avrebbe richiamato i camerati del giovane, fosse stato

possibile; ma, marciando col ritmo veloce di uomini in pericolo, già erano arrivati troppo innanzi nella loro traversata

della macchia e questa non frusciava neanche più per il loro passaggio.

«Sì, qui debbo morire!» disse il giovane, con espressione sconsolata, da scolaro lontano da casa, a e non c'è

nessuno che mi veda se non tu che m'hai ucciso. Mi vuoi portare un sorso d'acqua? Ho una gran sete».

Settimio, immerso in un sogno d'orrore e pietà, si precipitò giù per il declivio; la casa era vuota, essendo uscita

a cercar rifugio e simpatia presso un vicino la zia Keziah. Egli riempì una brocca d'acqua fredda e si affrettò a tornare

sulla vetta, trovandovi il giovane ufficiale più pallido e mortuario per il breve tempo tra scorso.

«Grazie a te che mi sei stato nemico e mi sei amico» sussurrò, con un fievole sorriso. «Dopo che con il padre e

la madre che ci procrearono, il rapporto più intimo l'abbiamo, credo, con l'uomo che ci uccide, introducendoci nel

mondo misterioso di cui questo è il vestibolo. In quel mondo ignoto tu ed io siamo singolarmente legati, non c'è

dubbio».

«Credimi» gridò Settimio, a sono addolorato per te come per un fratello».

«Lo vedo, amico carissimo», disse il giovane ufficiale,«e benché il mio sangue sia sulle tue mani, ti per dono,

se c'è da perdonare. Ma sto morendo, ho qualche parola da dire, cui devi prestare orecchio. Mi hai ucciso in leale

combattimento e le mie spoglie per diritto di guerra appartengono al vincitore. Appendi la mia spada ed il mio

moschetto sul tuo camino e narra, ai tuoi figli, di qui a vent'anni, come vennero guadagnati. La mia scarsella tientela

oppure regalala ai poverelli. Ma c'è qualcosa qui sul cuore che vorrei fosse spedito all'indirizzo che ti darò».

Settimio, obbedendo, gli trasse dal petto una minia tura; ma risultò che la palla l'aveva perforata spaccando

l'avorio, sicché il viso femminile effigiato era andato di strutto.

«Oh, che peccato!» disse il giovane; eppure Setti mio sentì dal tono che qualcosa di leggero e sprezzante si

mescolava alla commozione. a Bene, mandala lo stesso; falla spedire all'indirizzo».

Diede a Settimio, facendoglielo annotare su una tavoletta che aveva con sé, il nome di un castello in una delle

contee centrali d'Inghilterra.

«O antico luogo» disse, «con le sue querce, il suo prato, ed il parco, ed i suoi frontoni elisabettiani! Non

credevo davvero di dover morire qui, così lontano in questa terra americana e desolata. Dove mi seppellirai?».

Poiché Settimio esitava a rispondere, il giovane continuò:«Avrei voluto riposare nell'antica chiesetta di

Whitnash, che ora mi sorge dinanzi agli occhi; con la suo torre tozza e grigia e davanti il tasso tutto scavato dal tempo,

il villaggio aggrumato intorno con le sue case ricoperte di paglia. Non tollererei di giacere in uno dei vostri cimiteri

americani, che mi ripugnano - benché io ami te, mio uccisore. Seppelliscimi piuttosto qui, in questo punto preciso. Un

soldato riposa meglio nel luogo dov'è caduto».

«Qui, in segreto?» esclamò Settimio.

«Sì, non sono consacrati i vostri cimiteri puritani» disse il giovinetto morente, improvvisamente mèmore del

curioso esclusivismo della Chiesa anglicana. a Seppelliscimi dunque qui, nella mia uniforme. Ah! il mio orologio. L'ho

finita col tempo, io! e tu forse ne hai ancora una lunga provvigione; prenditelo dunque, non come una spoglia ma come

il mio dono d'addio. E questo mi ricorda un'altra cosa. Apri codesto portafoglio che hai in mano».

Così fece Settimio, e seguendo le istruzioni dell'ufficiale trasse da uno dei compartimenti un foglio ripiegato,

fittamente ricoperto di una scrittura contorta; era molto consunto nei margini esterni, non all'interno però. Nel

portafoglio v'era anche una chiavetta d'argento.

«Lo lascio a te» disse l'ufficiale, a mi fu dato da mio zio, un dotto scienziato che si proponeva di recarmi un

gran bene con ciò che vi scrisse. Raccogline il frutto, se puoi. Rincrescevole a dirsi, non ho mai letto che le prime righe

del foglio».

Settimio fu stupito, o meglio, profondamente impressionato nel vedere che attraverso quella carta, come

attraverso la miniatura, era passato il suo fatale proiettile, proprio nel centro; e un po' del sangue del giovane, che gli

inzuppava le vesti, aveva bagnato interamente il foglio. Gli parve difficile poter trarre qualche bene da ciò che era

costato una vita umana, rapita (sia pure non delittuosamente) dalle sue stesse mani.

«Posso far altro per te?» disse, con veridica, dolo rosa pietà, inginocchiandosi accanto al nemico caduto..10

«Nulla, nulla, direi», egli rispose. «C'era una cosa che avrei potuto confessare; vi fosse qui un ministro di Dio

la confesserei, implorando le sue preghiere; poi ché, sebbene non abbia vissuto che pochi anni, pure mi sono bastati per

commettere un grave torto. Ma tenterò di pregare nel segreto della mia anima. Girami il viso verso il tronco dell'albero,

ho già dato al mondo il mio ultimo sguardo. Ecco, adesso lasciami».

Settimio fece ciò che il giovane gli chiedeva, poi si appoggiò contro uno dei pini circostanti, osservando la sua

vittima con una tenera preoccupazione che gli faceva sentire come propri gli spasimi convulsi che per correvano quelle

membra. Un murmure esalò dalle labbra del giovane, e parve a Settimio rapido, sommesso e malinconico, simile alla

voce di un fanciullo che ha qualche cattiveria da confessare alla madre all'ora di andare a letto; contrito, supplice e pur

confidente. Continuò per alcuni minuti; poi vi fu un subito scatto, una lotta lieve, quasi egli volesse alzarsi, i suoi occhi

incontrarono quelli di Settimio in un selvaggio e torbido sguardo, ma mentre questi lo prendeva tra le braccia, era già

morto. Settimio adagiò il corpo piano piano sull'erba sparsa di foglie e procurò, come aveva sentito dire fosse costume

coi morti, di ricomporre i lineamenti di storti dall'agonia. Poi si buttò a terra non lontano di lì, abbandonandosi alle

riflessioni che gli avvenimenti di quell'ultima ora suggerivano. Aveva rapito una vita umana; e per quanto le circostanze

lo scagionassero - rendessero la cosa persino onorevole (l'avrebbero chiamata patriottica) - pure, non poteva, un fresco

campagnolo, vedere altro che orrore nel sangue che gli macchiava le mani. Tremendo appariva l'aver ridotto quella gaia,

animata, bellissima creatura, a un grumo di carne morta, pronta per il pasto delle mosche e che entro poche ore avrebbe

cominciato a marcire; che si sarebbe dovuto mettere subito in terra perché non divenisse un orrore agli occhi umani;

quella deliziosa bellezza, fatta per l'amore della donna; quella forza e quel coraggio fatti per creare la fama tra gli

uomini - tutto ciò ridotto a nulla; ogni probabilità di vita tra tanti doni: nome, posizione, piaceri, profitti, la penetrante,

estatica gioia - a questo non si poteva rimediare, tutto finito sul serio; su Settimio infatti discese l'oscuro dubbio che,

proprio per essere troppo adatto a godere di questo mondo, tanto meno quel giovane poteva esserlo per l'altro. Che

poteva trovar da fare - questa bellezza e grazia, quest'eleganza di fattura - là dove non c'era forma, nulla di tangibile, di

visibile? a che tutta quella prontezza e disposizione di associarsi con ogni cosa creata, fare la propria parte, agire,

godere, quando, sotto le mutate condizioni di un altro stato, tutte queste disposizioni verrebbero a man care? Fosse stata

dotata di permanenza sulla terra, non vi sarebbe stata creatura più ammirabile di codesto giovane; ma, così come s'era

svolto il suo fato, egli non era più che una larva, un'illusione, qualcosa che la natura aveva offerto per burla a mani tese,

poi ritirato. Ora da questa polvere poteva crescere un giunco; quel piccolo punto sulla calva collina, dov'egli aveva

desiderato esser sepolto, sarebbe più verde per qualche anno: ecco tutta la differenza. Settimio non riusciva a valicare la

terrestrità; il suo sentimento era quello di chi, con un atto di violenza, abbia ucciso per sempre una felice esistenza

umana. E tale era il suo proprio amore della vita, il suo aggrapparsi ad essa, tipico delle nature cupe e quale le più lievi e

liete non conosceranno mai, che rabbrividì al proprio misfatto e gli era difficile reggere da solo vicino al cadavere della

sua vittima, e tremava di volgere il viso verso di essa.

Pure lo fece perché non poteva soffrire di immaginare che il ragazzo che giaceva morto volgesse gli occhi

verso di lui; si avvicinò dunque e gli si fermò accanto, abbassando lo sguardo sul bianco volto riverso. Ma qua le

meraviglia! Quale mutamento era sopravvenuto da quando, appena qualche istante prima, egli guardava quel volto

contorto dalla morte. Adesso vi si posava un'alta, dolce espressione di grande gioia e stupore e pure una quiete vi era

soffusa, come se la vastità stessa della pace fosse la causa dello stupore. L'espressione era simile a una luce che gli

ardesse e splendesse nell'in timo. Spesso Settimio aveva visto, per un certo spazio di tempo dopo il tramonto, guardando

verso occidente, un vivo irradiare del cielo; l'estrema luce del giorno già morto, che pareva l'esatta controparte di questa

luce di morte nel volto del giovane. Pareva che questi fosse proprio alle porte del paradiso, le quali, aprendosi con dolce

impeto, lasciassero le glorie della città beata splendere sul suo volto e accenderlo di gentile, non turbato stupore e della

gioia più pura. Era un'espressione ideata dalla provvidenza di Dio per confortare, per far superare tutti i foschi auspici

che la bruttezza fisica della morte inevitabilmente ingenera e provare, in virtù della divina gloria del volto, che la

bruttezza è un'illusione.

Pareva che il morto stesso mostrasse il suo volto dall'alto, da un pertugio del cielo, segnato dalla benedizione

celeste e incoraggiasse l'amitto a farsi cuore e a credere nell'immortalità.

Settimio ricordò l'ingiunzione del giovane di seppellirlo colà sulla cima del colle, senza denudare il corpo; e

sebbene sembrasse un delitto coprire quel bellissimo corpo con la terra del sepolcro e abbandonarlo ai vermi, pure

risolvette di obbedire.

Tuttavia, a onor del vero, per quanto bella apparisse quella forma esanime, e per quanto innocente si potesse

considerare Settimio della sua morte, pure egli sentì che saperla sottoterra gli avrebbe alleviato l'animo. Corse giù alla

casa, ne riportò una vanga e un piccone e cominciò il suo indesiderato compito di becchino, scavando con impegno una

fossa profonda, sospendendo di tanto in tanto il lavoro, gocciolante sudore, per guardare la bellissima creta che

l'avrebbe occupata. A volte smetteva anche per ascoltare le schioppettate che si sgranavano a grande distanza, verso

oriente, là dove la battaglia s'era da lungo tempo ritratta, dileguata quasi fuori del raggio dell'udito. Essa pareva avesse

raccolto in torno a sé l'intera vita di quella terra, che la scortava lungo il suo corso sanguinoso con l'accavalcarsi

tumultuoso di uomini che gridavano e sparavano, poiché silenziosa e solitaria rimaneva ogni cosa alle loro spalle.

Pareva una solitudine da centro del mondo, quella del luogo dove Settimio scavava la fossa. Lui e il suo morto erano

soli insieme, egli avrebbe messo il corpo sotto la zolla e sarebbe rimasto solo del tutto.

Ora la fossa era profonda e Settimio, curvo laggiù, fra terriccio e ciottoli, pareggiava il fondo che gli sembrava

tale da celare per sempre il mistero del giovane, quando una voce parlò sopra di lui; una solenne, quieta voce ch'egli ben

conosceva..11

«Settimio! Che fai laggiù?».

Egli alzò gli occhi e vide il sacerdote. «Ho ucciso un uomo in leale combattimento» rispose, «e sto per

seppellirlo nel modo ch'egli stesso ha richiesto. Sono lieto che siate venuto. Voi, reverendo, potete dire una preghiera

appropriata alle sue esequie. Sono contento anche per me; perché è molto solitario, qui, e terribile».

S'arrampicò fuori della tomba e, rispondendo alle domande del pastore, gli fece parte degli eventi del mattino e

dello strano desiderio del giovane di esser sepolto in quello stesso punto, senza che la sua salma fosse affidata alle mani

che l'avrebbero preparata per la sepoltura. Il pastore esitò.

«In tempi normali» disse «una richiesta tanto singolare dovrebbe essere respinta nell'interesse della tua

sicurezza e per seguire le buone e sagge leggi le quali impongono di compiere pubblicamente e con ordine ogni atto che

riguardi la morte e la sepoltura».

«Sì», replicò Settimio; «ma probabilmente oggi cadranno legioni d'uomini, e saranno gettati in tombe

improvvisate, senza alcun rito funebre; senza che mai si sappia, forse, quale madre ha perduto il figliolo. Io non posso

non credere di dover adempiere l'estrema richiesta del giovane che ho ucciso. Si è fidato di me, che non spogliassi il suo

corpo né lo tradissi in mano altrui».

«Strana richiesta», disse il buon sacerdote osservando con profondo interesse il bellissimo viso del morto, la

snella, aggraziata, virile figura. «Quale motivo può avere avuto? Ma non importa. Io credo, Settimio, che tu sia tenuto

ad eseguire la sua volontà; invero, avendo glielo promesso, soltanto l'impossibilità potrebbe trattenerti dal mantenergli

fede. Non perdiamo tempo, dunque».

Con un cerimoniale scarso ma profondamente solenne il giovane straniero fu calato nella tomba dal pastore e

dal giovane che l'aveva ucciso. Fu pronunziata una preghiera, poi Settimio, raccogliendo alcuni rami e fronde, li sparse

sul volto che guardava in alto dal fondo della fossa, sulla quale il sole cadeva, gettandovi i suoi raggi fin quasi a

toccarlo.

Le fronde lo nascondevano parzialmente, pure il suo pallore ne traspariva. Poi il ministro vi gettò sopra una

manciata di terra e, abituato com'era ai seppellimenti, lacrime caddero dai suoi occhi mentre cadeva la erra.

«Che tristezza», disse, a questo povero giovane che viene dall'opulenza, certo, da qualche cara casa inglese, a

morire qui senza scopo; una delle primizie di una guerra sanguinosa, sacrificata così privatamente. Ma lasciamolo

riposare, Settimio. Mi rincresce che sia caduto per mano tua, seppure in ciò non vi sia neppure l'ombra del crimine. Ma

la morte è cosa troppo seria per non intridere tutta la natura di un uomo come te.

«Non credo di averlo sulla coscienza», disse Settimio, «sebbene non possa non provare dolore e desiderare che

le mie mani tornino a essere pulite come erano ieri. Certo è orribile recidere una vita umana». una cosa estremamente

seria» disse il pastore; «ma noi siamo forse inclini a stimare oltremodo l'importanza della morte, in qualunque

momento. Se si trattasse di morire o di vivere per sempre, allora certo qua si nulla potrebbe giustificare il mettere a

morte una creatura sorella. Ma poiché non si fa che abbreviarle la vita terrena e avvicinare di poco un mutamento che,

poiché Dio lo permette, è, possiamo concludere, destinato a prodursi, se non in questo, in qualsiasi altro momento, le

cose cambiano. Spesso penso che tanti eventi vi accadono nella vita d'ogni giorno, tante crisi sconosciute, che sono più

importanti per noi di questa misteriosa circostanza, la morte, da noi reputata la più importante di tutte. E tutto ciò che

comprendiamo di essa, è che porta la persona morta lontana dalla nostra consapevolezza di lei, che, mentre le viviamo

insieme, è già così esigua».

«Voi stimate un nulla, si direbbe, la sua vita terrena, che avrebbe pur potuto essere così felice».

«Quasi un nulla» disse il pastore; «poiché, come ho già detto, doveva, in ogni caso, terminare così presto».

Settimio pensò a ciò che il giovane, nei suoi ultimi istanti, aveva detto intorno a certe sue possibilità di vivere

una vita d'interminabile lunghezza, possibilità di cui l'aveva lasciato erede. Ma di ciò non parlò al ministro, vergognoso

com'era che costui potesse crederlo capace di prendere sul serio una tale eredità (benché probabilmente la cupa audacia

della sua natura si fosse già aggrappata a questa idea, e benché, ancora savio abbastanza da sentire la paura del ridicolo,

egli fosse occupato ad assimilarla nel segreto della sua mente).

Così Settimio assestò il giaciglio terreno dello straniero e ritornò alla sua casa, dove appese la spada sopra il

caminetto dello studio e l'orologio d'oro a un chiodo; era la prima volta che possedeva un simile oggetto.

E ora non si sentiva neppure troppo incline a tenerlo - quel misuratore del tempo appartenente ad un uomo la

cui vita egli aveva reciso. Splendido orologio, rotondo come una rapa. Sembra esista un diritto naturale per chi ha

ucciso un uomo di entrare, in ogni senso, nel posto così lasciato vacante; e dall'inizio dei rapporti tra uomo e uomo tale

diritto è stato per così dire riconosciuto, tra guerrieri e tra ladri, valido quanto qualsiasi altro. Pure, Settimio non riusciva

a valersi disinvolta mente di tale diritto. Risolse dunque di serbare l'orologio e anche la spada e il moschetto - che erano

gli oggetti meno dubbi come bottino di guerra - solo fino al momento in cui gli fosse consentito di restituirli a un

qualche erede del giovane ufficiale. Avrebbe speso il con tenuto del portafoglio, secondo la richiesta del moribondo,

sovvenendo alle necessità di coloro che la guerra (ora esplosa e di cui non si vedeva il termine) aveva reso bisognosi. La

miniatura, col suo viso rotto e frantumato, che così vanamente s'era interposta tra chi la portava e la morte, era stata

spedita all'indirizzo prescritto.

Quanto però al misterioso documento, il foglio scritto, egli l'aveva posto da parte senza neanche aprirlo, ma

con una cura che rivelava un interesse maggiore in quel l'oggetto che non nell'oro o nell'arma, o addirittura nel dorato

emblema di questo tempo terreno al quale attribuiva un così alto valore. Provava un tremito nel toccarlo; pareva ne

avesse paura dal modo come lo riponeva e, per così dire, se ne difendeva..12

Ciò fatto, l'aria della stanza, quella stanza a occidente, dal soífitto basso, dov'egli studiava e pensava, gli di

venne troppo opprimente, e si affrettò ad uscire; era pieno del sentimento informe di tutto l'accaduto, e la sensazione del

grandioso evento pubblico che è l'esplosione di una guerra si confondeva con l'azione da lui compiuta nella grande

contesa incipiente.

Desiderava altresì conoscere le notizie della battaglia che si era andata spostando lungo la strada di campagna

fino ad allora così pacifica, e dovunque, quel demone della guerra convertiva in soldato sitibondo di sangue il pacifico

padre di famiglia, con un sol soffio del suo rosso fiato sulfureo. Diresse perciò i suoi passi al villaggio pensando che

doveva essere senz'altro giunta una qualche notizia o di sconfitta o di vittoria dai messaggeri o dai fuggiaschi, per

rallegrare o rattristare i vecchi, le donne e i fanciulli che erano forse gli unici rimasti.

Ma Settimio non giunse al villaggio. Mentre passava accanto alla casetta che dianzi si è descritta, Rose

Garfield stava alla porta spingendo lo sguardo ansiosamente all'intorno, tentando di capire quale fosse l'esito della lotta,

secondo il destino immemoriale della donna. Ella dimenticò il riserbo che fino a quel momento si era imposto, vedendo

Settimio, e, volando verso di lui come un uccello, gridò:

«Settimio, caro Settimio, dove siete stato? Che notizie mi portate? Avete l'aria di aver visto una cosa strana e

tremenda».

«Davvero? Il mio volto narra di tali storie?» esclamò il giovane. «Non lo volevo. Eppure sì, o Rose, ho visto e

fatto cose che in un attimo trasformano un uomo».

«Allora avete partecipato a questo terribile combatti mento» disse Rose.

«Sì, Rose, ho preso parte» rispose Settimio.

Era sul punto di scaricare il cuore appesantito narrandole ciò che era accaduto sul colle stesso che li sovrastava;

senonché, vedendola così eccitata e ricordando il loro fugace incontro con il giovane ufficiale, e la coatta intimità ed il

legame stabilito fra lei e colui dal bacio, temette di agitarla ancor di più a raccontarle che quel giovanotto gaio e bello

era stato nel frattempo trucidato e deposto in un'insanguinata tomba dalle sue mani. Eppure il ricordo di quel bacio gli

diede un brivido di gioia vendicativa al pensiero che il colpevole aveva nel frattempo espiato con la vita l'offesa, e che

lui stesso era stato l'esecutore, tanto fortemente l'indole indiana, sanguinaria e vendicativa di Settimio era fusa con

quella dei suoi più pacifici avi, benché egli fosse abbastanza civile da riprovare quello spirito assetato di sangue,

sentendo che esso faceva di lui un criminale invece che un patriota.

«Ah» disse Rose rabbrividendo, «è terribile doversi uccidere a vicenda! E chissà quando sarà finita!».

«Per me finisce qui, Rose» disse Settimio. «Sarà legittimo per chiunque, anche se si è dedicato a Dio, per

pacifiche che siano le sue occupazioni, combattere fino alla morte allorché il piede del nemico calca la soglia della sua

casa; ma soltanto nei limiti di un frangente così pericoloso; una volta passato quello, egli dovrebbe ritornare alla sua

esistenza di pace. Ho commesso per una volta una cosa terribile, o Rose, una che potrebbe tracciare un segno nuovo su

tutta la mia vita a venire; ma da ora in poi non posso pensare che sia mio dovere persistere in un'opera alla quale i miei

studi e la mia indole mi rendono inadatto».

«No, no!» disse Rose. «Per carità, voi che siete ministro di Dio o prossimo a diventarlo! Ci debbono pur

rimanere dei pacieri al mondo, se no tutto si volgerà al sangue e alla confusione, poiché perfino le donne divengono

terribilmente feroci in tempi come questi. La mia vecchia nonna si lamenta di essere costretta a letto, perché, così dice,

non può uscire ad aizzare la gente contro il nemico. Ma ella ricorda gli antichi tempi delle guerre con gl'Indiani,

allorché le donne correvano pericolo di morte quanto gli uomini, con i quali rivaleggia vano in ferocia e che spesso

trucidavano con le loro stesse mani. Ma oggigiorno le donne dovrebbero essere più gentili; feroci siano pure gli uomini,

se così è necessario, ma con l'eccezione vostra e di coloro che sono come voi, o Settimio».

«Cara Rose» disse Settimio, «non mi conosco gli impulsi mansueti di cui parlate. Ho bis ogno di qualcosa che

raddolcisca e riscaldi la mia vita fredda e aspra, qualcosa che mi faccia sentire quanto è tremendo questo tempo di

guerra. Ho bisogno di voi, cara Rose, che siete tutta bontà di cuore e misericordia».

A questo punto Settimio, travolto da una certa quale eccitazione del momento, dalla condizione turbata del

paese o dalla sua passione ribollente, o dall'atto perpetrato, o dal desiderio di unire alla propria esistenza una creatura

umana, dopo aver sparso il sangue di un'altra, dai suoi propositi informi e dai suoi impulsi indistinti, in breve,

commosso dal turbamento di tutta la sua natura, parlò a Rose d'amore con quella sua energia, irresistibile una volta che

avesse valicato i suoi limiti. I verginali pensieri di Rose, a dire la verità, da tempo indugiavano sul giovane, ammirando

la sua tal quale fosca avvenenza, avendolo conosciuto fin dall'infanzia eppure sentendo che all'intimità si mescolava un

senso di distanza, essendo lui così dissimile da lei, cosa d'altronde assai attraente; ella nutriva inoltre un femminile

rispetto per l'erudizione, e la sua fantasia era vieppiù impressionata da tutto quanto in lui le riusciva incomprensibile,

sicché, infine, Rose cedette all'impetuoso corteggiamento e fece la promessa richiesta. E tuttavia non fu senza una

riluttanza ed un trarsi indietro; tutta la sua indole, il suo cuore più segreto, la sua più segreta femminilità forse non

assentirono. C'erano cose in Settimio: la sua natura selvaggia e mischiata, la mostruosità della sua razza ibrida, le tracce

di una cupezza tramandata da antenati malinconici, la diabolicità cui accennavano le voci popolari intorno alla sua

famiglia, che la facevano rabbrividire, anche quando, e tanto più a causa di quell'orrore, gli si stringeva più vicina. E

allorché egli le diede il bacio di fidanzamento, le labbra le si sbiancarono. Non fosse stato per quel giorno tumultuoso,

se egli l'avesse richiesta in un tempo tranquillo quando il cuore di lei fosse stato d'umore del tutto normale, forse,

spargendo lagrime e con molta compassione di lui, e dispiacere per sé, Rose avrebbe detto a Settimio di non sentirsi

d'amarlo al punto da diventare sua moglie. E come stavano le cose con Settimio? Ebbene, c'era una singolare

corrispondenza fra i loro sentimenti. Trascinato da una passione che lo ghermiva a sua insaputa e sembrava svilupparsi.13

tutta in quel momento, gli sembrò (e così si espresse con Rose, così la corteggiò) che tutta la sua terrestre felicità

dipendesse dal consenso di lei. Gli parve che l'amore di lei sarebbe stato la luce del sole nella buia segreta della sua vita.

Ma quando il consenso pudico, mansueto e trepido fu dato, subito nella sua mente affiorò uno strano presentimento. Gli

parve di aver ricevuto una cosa di per se stessa buona e, certamente, bella, ma che esigeva in cambio un'altra, più

consona a lui, cui ora gli toccava di rinunciare. L'intelletto, che era la parte preminente in Settimio, si agitò e si inalberò

gridando vagamente che le sue esigenze erano trascurate in questo patto. Forse Settimio non aveva alcun diritto d'amare

e se l'aveva, avrebbe dovuto rivolgersi ad una donna di altra fatta, che potesse essergli compagna. Forse era destinata a

lui una qualche via alta e solitaria, e per avanzarvi, per farvi qualche progresso, per attingere una qualche meta, avrebbe

dovuto restar libero dal peso de gli affetti. Tali pensieri lo resero depresso (a molti così avviene, a causa di simili

pensieri) e raggelarono il mo mento della vittoria che avrebbe dovuto essere quello della massima esultanza. E così nel

bacio che questi due fidanzati s'erano dato, c'era qualcosa di scostante; e quando si separarono, stupirono delle loro

strane disposizioni d'animo, pur rifiutandosi di riconoscere d'aver provocato qualcosa che non avrebbe dovuto accadere.

È ben certo, comunque, che, se ci lasciamo indurre ad una prossimità eccessiva con le persone, se valutiamo

eccessivamente la nostra o la loro attrazione, la reazione è inevitabile.

Settimio lasciò Rose e riprese a camminare in direzione del villaggio. Ma ormai il crepuscolo era vicino e

qualche viandante si faceva avanti sullo stradone, taluno lentamente, come ferito; spossati, tutti. Fra di loro emerse una

figura che Rose riconobbe. Era Robert Hagburn, con in mano un moschetto dal calcio spezzato, il braccio sinistro

bendato con un lembo della camicia e sospeso in un fazzoletto; stancamente camminava, ma si rianimò alla vista di

Rose, quasi vergognoso di mostrarle quanto era esausto e depresso. Forse si aspettava un sorriso, comunque

un'accoglienza più appassionata: sta di fatto che Rose, raffrenata da un riserbo nato da quanto era accaduto poco prima,

si limitò a fare con gravità qualche passo verso di lui, dicendo: «Robert, che aspetto pallido e stanco avete! Siete

ferito?».

«Non ha importanza» rispose Robert Hagburn, «un graffio al braccio sinistro, fatto dalla spada d'un ufficiale, la

cui testa conobbe subito il calcio del mio moschetto. Non ci si deve badare; non ne importa niente a voi, e neanche a

me». «Come potete dir così, Robert?» ella rispose. Ma senza altro saluto egli l'oltrepassò, entrò in casa sua dove,

buttandosi su una sedia, rimase in quello stato di irritazione che si prova dopo una lotta, anche se vittoriosa.

Il giorno dopo Settimio non perse tempo e scrisse una lettera all'indirizzo fornitogli dal giovane ufficiale,

dando un breve ragguaglio della morte e della sepoltura di lui, e annunciando la propria volontà di consegnare certe

proprietà, in qualsiasi momento, agli eredi, comunicando l'ammontare del denaro nella scarsella e la pro pria intenzione,

giusta il testamento verbale del defunto, di spenderlo per sovvenire ai bisogni dei prigionieri. Così fatto, salì sul colle a

contemplare la tomba, come a rassicurarsi che l'evento non era stato un sogno, cosa che si sentiva tentato di porre in

dubbio, nonostante l'evidenza tangibile della spada e dell'orologio, che stavano tuttora appesi sopra il camino. Il rialzo

del terreno era tuttavia così indubitabilmente una tomba, che gli parve tutti la dovessero ravvisare e domandarsene una

spiegazione, almanaccando su chi vi riposasse; il seppellimento clandestino dava invero alla faccenda un'aria assai

dubbia ed egli si domandò e ridomandò perché il giovane si fosse mostrato così esigente al riguardo. Ebbene, ecco la

sepoltura; e inoltre sulle zolle erbose dove si era coricato il giovane morente, si vedevano tracce di sangue, che la

pioggia ancora non aveva dilavato. Settimio stupì dell'agio con cui aveva commesso l'atto; sentì, anzi, in una certa qual

minima misura quel gusto del sangue che talvolta trasforma in una passione l'eccidio, come qualsiasi altro eccesso:

forse era di nuovo il suo carattere indiano ad agitarsi in lui; comunque non è bella a vedersi la subitaneità con cui un

uomo diventa una belva sanguinaria. Guardando dal sommo del colle egli vide la casetta di Rose Garfield e scorse la

fanciulla stessa di là della finestra o della porta, intenta alle sue faccende domestiche e tese l'orecchio a cogliere il suono

del canto che di solito erompeva da lei. Ma Rose per una qualche ragione non gorgheggiava secondo il consueto quella

mattina. Si aggirava silenziosa e, non si sa come, sfuggiva al quadro ideale in cui Settimio era solito collocarla, per

diventare una qualsiasi ragazza della Nuova Inghilterra, graziosa, di certo, e molto, ma non tanto da esaurire l'interesse

ed i supremi pro ponimenti d'un uomo; almeno, così pensava Settimio. Spingendo lo sguardo più in là, nel verde angoli

no dove sorgeva la casa di Robert Hagburn, vide il garzone assai pallido, con il braccio al collo, seduto con aria inquieta

su un ceppo mezzo tagliato che non aveva molte probabilità di essere diviso in due tanto presto dall'ascia di Robert.

Come accade spesso agli innamorati Settimio s'era accorto di quanto Robert fosse sensibile alle attrattive di Rose

Garfield; e adesso che li contemplava da quella posizione elevata, si domandava se non sarebbe stato forse meglio per la

felicità di Rose che i suoi pensieri e le sue verginali fantasie si fossero fissati su quel giovane franco, gioviale, capace e

integerrimo, invece che su di lui Settimio, che le stava a paro in così poche cose; anzi, forse egli era simile ad una pianta

le cui radici si spingevano nel sepolcro e si avvolgeva in torno alla vita di lei coprendola con l'ombra del suo fogliame

cupo e lussureggiante, con frutti di cui sol tanto lui avrebbe potuto pascersi.

La tetra fantasia di Settimio, benché egli la tenesse il più possibile lontana dall'argomento, continuava a

insinuare e mormorare, tornando sempre a quel punto, segretamente facendo balenare l'idea che l'evento di ieri avrebbe

prodotto conseguenze importanti per il suo destino.

Ancora non aveva guardato la carta lasciatagli dal giovane, che aveva riposto senza neanche aprirla: non

perché vi portasse poco interesse, ma anzi, perché vi cercava una illuminazione tutta personale. Il giovane ufficiale non

ne era stato che il portatore, ed era venuto fin li, a morire per mano sua, soltanto perché era questa la via più rapida per

consegnargli il messaggio. In quale altro modo, tra le infinite possibilità delle umane faccende, quel documento avrebbe

potuto raggiungere il suo possessore predestinato?.14

Così meditava Settimio, passeggiando su e giù, sulla spianata all'orlo del suo colle, lontano dal mondo cui

gettava di tanto in tanto uno sguardo, e sentendo che il proprio amore e il proprio interesse ne rimanevano lontanissimi;

intanto Rose, forse, guardando in alto, scorgeva di tanto in tanto passare la sua figura è trema va alla vicinanza e al

distacco ch'erano tra di loro; e anche Robert Hagburn guardava, domandandosi che razza d'uomo fosse colui che,

avendo conquistato Rose Garfield (perché l'istinto l'avvertiva di questo), poteva serbare quella distanza tra sé e lei,

pensando peregrini pensieri.

Settimio percorreva un sentiero tutto suo, sulla cima della collina; i suoi piedi cominciarono quel mattino a

batterne lentamente la traccia, passeggiando avanti e indietro; colà egli era separato dal mondo inferiore, tranne per

qualche rapida visione fra le betulle e le robinie che innalzavano le loro fronde sul fianco della collina. Ma per molti

anni, da allora, continuò a calcare quel sentiero finché fu avvallato profondamente dalle sue orme e ben battuto e

pestato; e qualcuno dei suoi vicini superstiziosi riteneva che l'erba e i piccoli cespugli si ritirassero dal percorso di lui e

così lo slargassero; v'era infatti qualcosa, in quelle meditazioni che lo so spingevano avanti e indietro sul sentiero,

contrario alla natura ed alle sue produzioni. Esisteva anche un'altra opinione, che un demonio invisibile, un suo

antenato, gli camminasse al fianco, rendendo così il sentiero più ampio di quanto avrebbero potuto scavarlo i suoi passi.

Ma tutto ciò era ozioso, era soltanto lo stolido vocifera re che gravita, simile ad una nebbia, sugli uomini che si

ritraggono dalla folla internandosi in imprese incomprensibili, assorti in interessi tutti loro. Per il momento il piccolo

mondo che era l'unico a conoscerlo considerava Settimio un giovane studioso adatto al ministero pastorale e tale da fare

onore all'atavica vena sacerdotale, a dispetto del sangue selvaggio proveniente dal sacerdote indiano; forse tanto più

adatto a fare il prete, a causa della intuizione naturale della natura del Demonio, dati quei precedenti ereditari. Quale

strano interesse ci spinge a muovere i primi passi in una carriera decisiva per la nostra vita! Quel cammino in cima al

colle, che girava e girava intorno a un tumulo, pareva simboleggiarlo, per la vita di Settimio.

Forse la morbosità di Settimio fu sollecitata dalle circostanze che lo avevano messo in possesso di quella carta.

L'avesse ricevuta per posta probabilmente non l'avrebbe impressionato, e l'avrebbe magari perfino scorsa con sarcasmo,

buttandola via; senonché l'aveva presa ad un moribondo e sentiva che il suo destino vi era legato; e in verità era proprio

così. Aspettò che si presentasse un'occasione adatta per aprirla e leggerla; rinviò come se non gliene importasse niente,

forse perché gliene importava troppo. Ogni volta che si divertiva con Rose (e nonostante il suo umor nero, momenti

felici ce ne furono), sentiva che non era quella l'occasione propizia per aprire la carta - la quale non andava letta in una

disposizione felice.

Una volta chiese a Rose di passeggiare con lui sul colle. «Ma che sentiero hai segnato, o Settimio, a forza di

camminarci» ella disse. «Percorri chilometri in questo perimetro, per non progredire di là dal punto dove sei partito.

Che strana marcia!».

«Non so, Rose; talvolta penso che qualche progresso lo faccio. Ma è più soave, sì, ben più soave, averti con me

su questo sentiero, piuttosto che percorrerlo in solitudine».

«Ne sono contenta», disse Rose; «talvolta, infatti, guardo quassù e ti vedo attraverso i rami, che tieni la testa

bassa, le mani strette sulla schiena, sempre a calcare, calcare, calcare questo stesso sentiero, mi domando se davvero ho

una qualche parte nei tuoi pensieri. O Settimio» soggiunse, guardandolo in faccia e sorridendo: «non credo che mai

giovinetta abbia avuto un fidanzato simile».

«Nessun giovane ha mai avuto una fidanzata simile, ne sono certo» disse Settimio, «così soave, fatta per lui,

così feconda di buoni influssi!».

«Davvero, mi nasce un'alta opinione di me stessa, quando faccio nascere un tal sorriso sul tuo volto! Ma,

Settimio, che cos'è questo tumulo accanto al nostro sentiero? L'hai costruito affinché serva da sedile? Voglia mo sederci

per un istante? Mi stanca di più andare avanti e indietro sullo stesso sentiero che non camminare in linea retta per una

distanza ben maggiore».

«Bene, ma non ci sediamo su questo tumulo» disse Settimio, allontanandola. «Ti prego, spostiamoci da questa

parte donde si gode di una migliore vista dell'ampia pianura, della valle, della dolce catena di poggi dell'opposto

versante la quale la rinserra come se la valle racchiudesse la vita. È un panorama che non stanca mai, benché non vi sia

niente di eccezionale; sono felice che non vi si levino grandi colli pronti a cacciarsi fra i miei pensieri, per rimuoverne

le cose più alte. Forse sarebbe bene, in certe disposizioni d'animo, poter godere di una vista di acque, del lago che un

tempo dovette ricoprire questa verde vallata, perché l'acqua riflette il cielo e pertanto è simile a ciò che è nella vita la

religione, l'elemento spirituale».

«Il ruscello attraversa la valle, benché sia nascosto alla nostra vista», rispose Rose; «un ruscelletto torpido,

certo, ma esso ha, come dici, il cielo nel seno, come lo stagno di Walden, e gli specchi d'acqua più vasti».

Seduti sulla vetta avevano sott'occhio in basso il fondo di Robert Hagburn che videro, con il braccio ormai

libero, aggirarsi, tutto eretto, con un uomo di mezza età al quale sembrava stesse parlando e spiegando qualcosa. Anche

a distanza Settimio vedeva che non aveva più la sua andatura curva e rozza, che Robert sembrava essersi evoluto.

«Che cosa è successo a Robert Hugburn?» egli do mandò, «sembra un altro uomo e non è più lo zotico di

qualche settimana fa». «Niente è successo» disse Rose Garfield, «salvo quel che accade a parecchi giovani oggigiorno.

Si è arruolato ed è in procinto di partire per la guerra. Peccato per sua madre».

«Un gran peccato, certo» disse Settimio. «Le madri di tutta la nazione sono oggi da compatire, e ci sono

persone che vanno compatite molto più delle madri stesse, benché spesso non conoscano e nemmeno sospettino il

motivo del loro dolore».

«E di chi parli?» domandò Rose..15

«Delle numerose soavi fanciulle» disse Settimio, «che sarebbero state mogli felici delle migliaia di giovani che

stanno ora partendo per la guerra, come Robert Hagburn. Alcuni di quei giovani si ammaleranno e moriranno negli

accampamenti o verranno falciati dai colpi di fucile o trafitti dalle baionette, trasformandosi in polvere e cenere, mentre

le ragazze che li avrebbero amati, preparando per loro dei focolari felici, appassiranno nel dolore, durante lunghi anni

acidi e scontenti, per poi abbandonare la vita senza averla nemmeno conosciuta. Come vedi, Rose, ogni fucilata che

coglie nel segno ammazza almeno due persone, o almeno, una ne uccide e fa di peggio all'altra».

«Non c'è nessuna donna destinata a vivere zitella se il povero Robert Hagburn resta ucciso», disse Rose

mutando tono, «poiché egli non si sposerebbe, nemmeno se rimanesse a casa coltivando la terra».

«E come fai a saperlo, Rose?» domandò Settimio.

Rose non svelò come fosse giunta a conoscenza così intima dei proponimenti matrimoniali di Robert Hagburn,

ma dopo la breve chiacchierata fu come se qual cosa si fosse levata a separarli, una specie di nebbia, creando un

ambiente sfavorevole ad un approfondì mento del loro rapporto; il flusso e lo scambio dei sentimenti venne impedito ed

essi fecero pochi giri in silenzio sul sentiero così frequentemente calcato da Settimio. Non so di preciso che cosa fosse;

ma in certi casi è misteriosamente rivelato a certe persone che esse hanno commesso un errore intorno a ciò che le

riguarda massimamente e questa verità giunge nella forma d'una vaga depressione di spirito, simile ad una foschia che

si posi su un paesaggio; un presentimento che va e viene, magari, un'assenza della certezza assoluta. Comunque Rose e

Settimio non scambiarono più parole tenere e giocose quel giorno: Rose tornò subito ad accudire alla nonna, e Settimio

si richiuse nel suo studio dopo aver combinato un appuntamento con lei per l'indomani.

Settimio si chiuse dentro ed estrasse il documento che il giovane ufficiale, con quel singolare sorriso sul volto

di moribondo, gli aveva lasciato come a compenso della propria morte. Era avvolto in una pergamena, attraversata,

come s'è detto, dal buco della pallottola e macchiata di sangue. Settimio aprì l'involucro di pergamena e scoprì un

manoscritto coperto da una fitta e con torta scrittura, tanto che dapprima non gli riuscì di de cifrare una sola parola né di

scoprire in che lingua fosse. Sembrava che ci fossero parole latine e altre, sparse qua e là, in caratteri greci, e di quando

in quando gli riusciva di congetturare una frase inglese; ma, tutto sommato, era un coacervo inintelligibile dal quale si

ricavava vagamente che doveva trattarsi del frutto di ingenti fatiche e di vasta erudizione, originato da una mente stipata

di letture, intenta a macinare e schiacciare il gran cumulo di grappoli raccolti in tante vigne diverse spremendone i

succhi opulenti e vischiosi; vino potente di cui ubriacare il lettore. Una parte, a intrigarlo ancor più, era in cifrario;

precauzione superflua, si sarebbe detto, dato che già la grafia naturale dello scrittore era così piena d'enigmi e tratti

incredibili.

Settimio osservò lo strano manoscritto, che gli tremò nelle mani mentre lo teneva alzato per leggerlo, tanta era

la sua eccitazione, dovuta forse in gran parte al mo do in cui gli era pervenuto, in circostanze gravide di tragedia e di

mistero, quasi che, essendo di somma segretezza ed importanza, non potesse essere conosciuto da più di due persone

alla volta e fosse perciò necessario che una morisse nell'atto di trasmetterlo all'altra, al proprietario predestinato, erede e

profittatore. Con mano grondante di sangue s'era impossessato del legato, il più ricco che un uomo potesse ottenere, al

modo in cui tutte le grandi proprietà di questo mondo sono state ottenute ed ereditate. Trascorse sulle frasi misteriose, e

si domandò se, quando fosse riuscito a leggerne una, non ne sarebbe stata evocata una presenza maligna, che sarebbe

comparsa fra tuoni e diaboliche manifestazioni. E per qual caso strano era giunto quel documento nelle mani dell'unica

persona degna di riceverlo? Parve a Settimio, nel suo egoismo entusiasta, che tutta la catena de gli avvenimenti fosse

stata disposta a tale scopo di proposito; una divergenza era nata fra popoli affini, era scoppiata una guerra, un

ufficialetto di nobile prosapia s'era messo in marcia, incontrando un pacifico studente il quale da motivi alti e nobili era

stato spinto a ucciderlo; ne era seguita una strana e breve intimità, durante la quale la vittima aveva istituito erede il suo

ucciso re. Tutti codesti fatti casuali, o almeno apparentemente tali, tutti codesti interventi della Provvidenza, quali senza

dubbio erano, erano stati necessari per mettere il manoscritto nelle mani di Settimio, che ora lo osservava senza leggervi

con sicurezza nemmeno una parola!

Ma ciò non lo turbava, se non per il momentaneo ritardo. Poiché si sentiva ben certo: il veemente, con centrato

studio che intendeva dedicarvi avrebbe rimosso tutte le difficoltà, così come il raggio dello specchio usto rio giunge a

liquefare le pietre, e il telescopio penetra la più densa galassia e risolve ciascuna stella nel suo individuale scintillio. Era

pronto a spendervi anni, se necessario; ma la serietà e l'applicazione avrebbero compiuto velocemente il lavoro degli

anni. In queste meditazioni fu interrotto da sua zia Keziah; quella buona signora, di solito rispettosissima degli studi del

nipote, quasi vi sentisse alcunché di sacro sia per l'intenzione di lui di diventare pastore sia per la propria riverenza

verso il sapere, fosse pure paganeggiante, quella volta chiamò Settimio con qualche perentorietà perché le tagliasse

legna ad uso domestico. Com'è singolare il modo in cui siamo richiamati da altissimi propositi a queste piccole

necessità casalinghe, e come tutto simboleggia il gran fatto che la nostra porzione terrestre, con le sue esigenze,

consuma la maggior parte delle energie di cui disponiamo! Sicché con borbottii e lamenti egli si recò al capanno e si

prodigò nell'esercizio richiestogli dalla vecchia dama per un'ora; e soltanto con l'istinto lavorò, quasi senza coscienza di

ciò che faceva. Tutta la fugace vita appariva senza importanza, e se per un attimo sembrava diversa, le sue solitarie

meditazioni ed i suoi pro getti diventavano impalpabili, della consistenza del vapore, la cui massima concentrazione non

fa che configurare sembianze di volti assurdi, contratti da smorfie, boccacce, risate.

Ma quella frase di mistico significato gli rifulse come una cosa diafana, illuminata nell'oscurità della sua

mente; risolse di assumerla come proprio motto fino al momento in cui fosse per trionfare nella sua ricerca. Quando

prese la candela per andare a letto, ancora una volta tirò fuori il manoscritto, e, sedutosi al fioco lume, invano tentò di.16

leggerlo; ancora non riusciva a concentrarsi in uno sforzo tranquillo e fermo, continuava a voltar le pagine del

manoscritto nella speranza che qualche altra frase luminosa si rivelasse con pari effetto, fino a che l'intero documento

fosse irradiato da stelle di luce convergenti e concentrate in un unico fulgore capace di rendere visibile il tutto. Ma gli

era così avversa la fortuna che per tutta la sera non gli riuscì di leggere più una parola sola di tutto il manoscritto e

inoltre, quando gli restava ancora un mozzicone di candela, la zia Keziah comparve in berretta da notte, figura

stregonesca se mai ve ne fu una degna di quelle che si recavano al raduno dei maghi nella foresta con l'antenato di

Settimio: era stata destata e, levatasi dal letto, eccola ora alla porta della camera, che lo rimproverava col dito alzato.

«Settimio» disse, «tu mi tieni sveglia, e ti rovinerai gli occhi e ti darà di balta il cervello se studi fino a

mezzanotte a questa maniera. Non vivrai tanto da diventare sacerdote se vai avanti di questo passo».

«Bene, bene, zia Keziah» disse Settimio, coprendo il manoscritto con un libro, «stavo per andarmene a letto

giusto adesso».

«E allora buona notte» disse la vecchia, «e che Dio benedica le tue fatiche».

Stranamente una sbirciata al manoscritto mentre lo nascondeva alla vecchia, sembrò rivelargli un'altra frase di

cui aveva imperfettamente colto il senso; e quando ella se ne fu andata, invano tentò di trovare il luogo e altresì invano

si sfogò di rammentare il senso di quanto aveva letto. Indubbiamente la fantasia gli esagerava la importanza della frase

e gli parve che essa fosse svanita dal libro per sempre. Lo sfortunato giovane, eccitato e sbattuto qua e là da una

molteplicità di impulsi inconsueti, s'era ridotto assai male e avrebbe perfino potuto impazzire se la parte equilibrante

della sua mente non si fosse mostrata più consistente e robusta di quanto poteva finora sembrare.

La mattina seguente si era alzato presto e allegramente, e ora compulsava il manoscritto con l'ingegno aguzzato

dalle prime ore del giorno, spingendo lo sguardo in quella notte, in quel sogno antico, offuscato, dimenticato; invero

l'aveva perfino sognato e lo ossessionava l'idea di aver ripreso in sogno l'impenetrabile documento leggendolo con la

disinvoltura con cui avrebbe sfogliato un dramma moderno, costantemente rapito dalla profonda verità che svelava alla

sua mente e dalla lucidità con cui indicava il modo grazie al quale l'uomo poteva reintegrarsi nel suo stato immortale

primitivo. Così forte era l'impressione che quando apri il manoscritto quasi era convinto che l'antica contorta scrittura

gli fosse chiara. Ma non era così, anzi, il povero Settimio in vano sfogliava le pagine gialle alla ricerca dell'unica frase

che egli era riuscito o gli era sembrato di decifrare il giorno dianzi. L'illuminazione che l'aveva fatta emergere ormai era

ottenebrata, tutto era confuso, impenetrabile, un groviglio di lettere inintelligibili. Ne fu colpito a segno che quasi aveva

in animo di fare il manoscritto a pezzettini gettandolo dalla finestra nel libeccio che imperversava attorno alla casa e se

in quella stagione estiva ci fosse stata una fiamma accesa nel focolare forse la facilità di attuare l'impulso distruttivo lo

avrebbe spinto a buttare il maledetto scritto nella più rovente vampa, restituendolo così al Diavolo che, egli sospettava,

ne era l'autore originario. Se così avesse fatto, quali strani e tetri passi mi risparmierei di narrare! E come diversa

sarebbe stata la vita di Settimio, pensoso predicatore della parola divina, dalle opinioni se vere e coscienziose intorno

alla condizione dell'uomo, meditabondo e operoso viandante su questa terra, messo infine a riposare in un sepolcro

onorato il cui epitaffio avrebbe testimoniato del grande servizio da lui reso alla sua generazione.

Intanto però quel giorno turbolento trascorreva su di lui, tempestandolo, frastornandolo e facendolo incespicare

nella trafila dei suoi incidenti puramente sublunari; così agiranno sempre i nostri giorni ogni qual volta tenteremo di far

qualcosa che vorremo persuaderci sia più importante di ciò che fanno gli altri. La zia Keziah lo tormentò per molto

tempo perché trascurava di coltivare il campo opimo di là dello stradone, davanti a casa, e perché, non avendo voglia di

trovare lui il tempo di ararlo, di piantare e di zappare, aveva preso a giornata uno zuzzurellone del paese, che tanto

valeva ingaggiare e pagare lo spaventapasseri rivestito dei vecchi panni dalla zia Keziah e ficcato in mezzo al grano. Poi

arrivò un vecchio bacucco dal villaggio, parlando a Settimio, che era stufo dell'argomento, della guerra: riportando voci

di scaramucce che il giorno appresso si sarebbero rivelate per false, di battaglie che avrebbero dovuto aver luogo, di

scontri con il nemico in cui i no stri mostravano un valore eroico che ne centuplicava le forze, ma dovevano ritirarsi;

cianciando di pallottole e mortai, di battaglioni, infilate, fascine da terrapieno e altri argomenti di arte militare; la guerra

infatti aveva riempito il cervello della gente e ravvolto tutto l'umano pensiero in una nebbia di polvere da sparo.

A questo modo, seduto sulla soglia, o addirittura nel lo studio stesso, ossessionato da tali riflessioni, questo

miserabile vecchio sprecava la miglior parte d'un pomeriggio estivo, mentre Settimio ascoltava, emettendo monosillabi

distratti, rispondendo a vanvera e augurandosi che il suo interlocutore venisse ficcato dentro ad uno dei cannoni di cui

cianciava e quindi sparato fuori a concludere la sua chiacchierata in un gran rombo; in tanto quello discorreva di alti

ufficiali venuti dalla Francia e da altri paesi, di forze soverchianti arrivate dall'Inghilterra per mettere fine subito alla

guerra, nell'improbabilità che mai terminasse, della mancanza di ogni speranza, della certezza d'una fine favorevole e

spedita.

Poi giunse per il sentiero un soldato infermo e zoppicante il quale tornando a casa dal campo mendicava il

sostentamento che fino ad allora s'era procacciato con il pieno vigore d'una salute contadina che mai più avrebbe

conosciuta; ed anche con lui toccò a Settimio d'intrattenersi, sovvenendone i bisogni nella misura delle sue possibilità

(ma senza attingere al deposito di oro inglese lasciato dal giovane ufficiale), prima di rimetterlo sul suo cammino.

Poi venne il pastore a parlare con il suo ex alunno, intorno al quale aveva di recente assai meditato, senza

riuscire a capire di quale sentimento fosse preda; il pastore era infatti uomo di grande acume e dopo le conversazioni

avute con Settimio, condotte con la applicazione penetrante che gli era propria, aveva cominciato a domandarsi se egli

fosse tanto saldo nella fede da poter seguire la vocazione sacerdotale. Non che lo sospettasse d'indurimento nella

miscredenza, ma giudicava probabile che i dubbi, le suggestioni diaboliche, strane, oscure, scoraggianti le quali.17

certamente infestano certi temperamenti e certi gradi dell'intelletto, stessero tormentando il povero Settimio,

allontanandolo dal sen tiero sul quale avrebbe pur potuto operare così bene.

Così giunse quel pomeriggio per parlare seriamente con lui, per consigliargli, se il caso era quale sospettava, di

uscire per un momento dai binari fissi in cui per tanto tempo aveva arrestato il suo pensiero, impegnandosi nella vita

attiva e tornando poi, a poco a poco, una volta superati gl'influssi morbosi grazie ad una trasformazione della sua

religiosità mentale e morale, con ritrovata salute, al suo proponimento originario.

«Che cosa posso fare» domandò tetramente Settimio, «quale attività intraprenderò adesso che tutta la terra è

desolata e oziosa, occupata soltanto dalla guerra?».

«Ecco dunque trovata l'attività che si voleva» disse il sacerdote. «Pensi che il lavoro di Dio non si possa

svolgere sul campo come sul pulpito? Sei robusto, Settimio, di carattere audace ed hai un aspetto, un portamento tali da

conferirti una naturale autorità fra gli uomini. Parti per la guerra e opera coraggiosamente per la patria, e poi torna alla

tua missione di pace, una volta vinto il nemico. Oppure puoi arruolarti come cappellano in un reggimento e allora

adopra entrambe le mani in battaglia, prega per la vittoria prima e aiuta quindi a ottenerla con la sciabola o con il fucile

e alla fine rendi grazie a Dio, in ginocchio sul campo di sangue. Hai già steso un nemico sul suolo della patria».

Settimio non poté fare a meno di sorridere a tale bellicoso e sanguinario consiglio e, connettendolo a certe

consimili esortazioni della zia Keziah, fu propenso a credere che le donne e i sacerdoti, in materia di guerra, fossero i

più inflessibili e sitibondi di sangue di tutta la comunità. Comunque rispose freddamente che i suoi impulsi morali e il

suo sentimento del dovere non lo spingevano, a onor del vero, in tale direzione e che a suo parere la guerra non era una

faccenda nella quale l'uomo si potesse impegnare senza pericolo per la sua coscienza, salvo la stessa coscienza ve lo

spingesse; e che qui stava tutta la differenza tra un'eroica battaglia e una contesa omicida. Il buon sacerdote nulla di

sostanzioso aveva da replicargli a questo proposito e si congedò sempre più convinto che qualcosa non funzionasse

nella mente dell'allievo.

Frattanto era giunta al termine quella giornata così contrariante, costellata di minimi o grandi impedimenti alla

grande ricerca che egli si proponeva, di scoraggianti faccenduole terrestri, di interruzioni fastidiose, funestata dai

violenti contraccolpi dei cambiamenti d'umore, e venne l'ora in cui egli aveva combinato di vedere Rose Garfield. Temo

che il povero giovane così variamente frustrato non andasse al suo appuntamento amoroso con un'amabile disposizione

d'animo, ma viceversa ci si re casse forse riflettendo su come tutte le cose del mondo, compreso l'amore, le terrestri

come le celesti, si oppongano al progresso dell'uomo, in qualsiasi impresa egli si metta. Una volta che egli intraprenda

una cosa ogni altra cospira a impedirglielo.

Fu tuttavia un incontro piacevole e felice quello che ebbe con Rose. La giovinetta era d'umore gaio e canterino

e gli andò incontro con tanta semplicità, inondandogli l'anima d'una tale soavità, che Settimio quasi scordò le aspre

preoccupazioni della giornata e le camminò al fianco con una pienezza di quiete che gli era nuova. Ella lo riconciliava

in qualche segreta maniera alla vita qual'era, all'imperfezione ed al corrompimento; senza soccorso alcuno dell'intelletto,

ma mediante l'influsso del suo carattere ella sembrava non già risolvere ma appianare i problemi che lo tormentavano;

col suo puro essere, con la semplicità e femminilità ella interpretava a beneficio di lui le vie del Signore, ammorbidiva

le pietrificazioni che cominciavano a formarglisi attorno al cuore. Così passarono un tempo delizioso parlando, ridendo,

odorando fiori e quando furono per separarsi Settimio le disse:

«Rose, m'hai convinto che questo è un mondo ben felice e che la Vita ha due rampolli, Nascita e Morte, cui

vuole naturalmente un bene uguale; e che Dio è molto buono con i suoi figli terreni e che tutto procederà bene».

«Ed io ti ho persuaso di tutto ciò?» rispose Rose con una bella risata. «È tutto vero, senza dubbio, ma non

saprei discuterne. Ma tu sei molto amabile e oggi non mi hai impaurito». «Ti impaurisco dunque, Rose?» domandò -Settimio

chinando la sua fosca fronte verso di lei con un'espressione sorpresa e dispiaciuta.

«Qualche volta sì» disse Rose affrontandolo con arditezza, sorridendo alla nube in modo da disperderla:

«allorché ti rannuvoli con me a quel modo quasi temo che mi picchierai, a suo tempo».

«Adesso» disse Settimio, tornando a ridere, «potrai fare la tua scelta, essere picchiata sull'istante o ricevere

un'altra specie di punizione. Sai quale?». Così dicendo la ghermì traendosela vicino e tentando di baciarla, mentre Rose,

ridendo e lottando gridava: «Picchiami, piuttosto!». Ma Settimio non allentò la presa, benché poi non gli riuscisse che di

toccare la gota di Rose. In verità dubito che mai Settimio riuscisse a toccare quelle morbide e dolci labbra dove

aleggiavano i sorrisi ed i piccoli bronci, salvo una volta, quando s'era no scambiata la loro promessa. Adesso egli

tornava al suo studio domandandosi se dovesse toccare ancora una volta quel manoscritto uggioso, brutto, giallo,

sbiadito, inintelligibile e macchiato di sangue. Provava una indefinibile riluttanza a farlo e nel contempo un'attrazione

che si sarebbe rivelata irresistibile. Cedette ed estraendolo dallo scrittoio dove quel prezioso e fatale tesoro era chiuso a

chiave, vi si immerse ancora una volta e stavolta con un certo successo. Ritrovò la frase che prima aveva dato un

barbaglio per poi svanire, e che adesso spiccava con nettezza; come talvolta vediamo una certa disposizione di stelle nel

cielo e poi la smarriamo, perché non ne ravvisiamo più i singoli astri nella medesima precedente disposizione, così

guardando il manoscritto in una diversa maniera Settimio scorse questo frammento di periodo e in più vide che cos'era

necessario per conferirgli un certo significato: «Metti la radice in una tomba, e aspetta che germogli. Sarà opulento e

succoso». Ecco il senso, ne era sicuro, della frase e la interpretò come un riferimento alla produzione di qual cosa

d'essenziale a ciò che doveva preparare. Forse la sua sostanza era esclusivamente morale, o come è generalmente il

caso, la verità fisica e la morale andavano di conserva..18

Mentre Settimio era così occupato s'inoltrò l'estate e con essa apparve il nuovo personaggio che si fa avanti tra

queste pagine. Era una pallida ed esile giovane che Settimio fu stupito di trovarsi dinanzi allorchè salì il suo poggio per

fare la consueta passeggiata avanti e in dietro sul solito sentiero che ormai aveva segnato profondamente a forza di

calcarlo.

Cosa ancor più strana: ella sedeva vicinissimo al sepolcro che soltanto lui ed il pastore sapevano essere una

tomba, al tumulo che egli aveva un poco spianato piantandoci vari fiori e arbusti: l'estate li aveva resi lussureggianti ed

il povero giovane sottoterra aveva contribuito quanto aveva potuto, tentando di renderli il più possibile vezzosi a ricordo

della propria bellezza. Settimio desiderava celare il fatto che quella fosse una tomba: non che lo tormentasse un senso di

colpa per aver sparato al giovane, avendolo fatto in aperta e leale battaglia, ma tuttavia aver steso una bella creatura così

adatta a godersi la vita su quel punto del terreno dove forse sarebbe stato meglio celare il suo volto cupo ed il suo petto

turbato, questo non era il più piacevole dei pensieri. (Forse potrebbero talvolta esservi dei tratti fantasticamente briosi

nel linguaggio e nel comportamento della ragazza).

Bene: ma sopra la tomba camuffata con fiori e arbusti sedeva questa figura femminile, una sconosciuta dalla

grazia esile, pallida e malinconica, semplicemente vestita d'un abito nero portato con grande negligenza.

D'acchito Settimio pensò che potesse essere Rose, ma uno sguardo bastò a farlo ravvedere; questa figura era

diversa dalla bellezza vigorosa benché lieve e scattante di Rose, essendo di una grazia stanca, e quand'e gli fu

abbastanza vicino da ravvisarne il volto s'accorse che gli occhi vasti, scuri e malinconici che lo fissa vano non avevano

mai incontrato i suoi prima d'allora.

«Buondi, bella donzella» disse Settimio, con quanta cortesia seppe usare (a dir vero di una qualità rustica,

avendolo la vita messo assai poco in contatto con, la società femminile).

«Quassù in cima spira una bell'arietta, questa mattina che da basso è così afosa!».

Mentre parlava seguitava a guardare con stupore la strana giovinetta, quasi fantasticando che ella avrebbe ben

potuto essere spuntata dal sepolcro, talmente era inattesa, così dissimile da tutto quanto c'era stato in precedenza in quel

luogo.

La giovane non gli parlò, ma, seduta accanto al sepolcro, continuò a ripulirlo dalla zizzania, dalle bianche lame

di stinta erba autunnale e dagli aghi di pino che s'erano confitti nel suolo come a esplorarne la natura e la flora: invero

parevano crescervi varie specie di fiori, gli astri ed i crisantemi delle biade che l'autunno largisce in abbondanza. Ella

sembrava alla ricerca di qualcosa e sovente strappava una foglia esaminandola accuratamente, poi la gettava in terra

scuotendo il capo. Alla fine levò il pallido viso e fissando gli occhi tranquillamente su Settimio disse:

«Non è qui».

Era una voce dolce, lamentosa e bassa, ed ella parlava a Settimio come se egli le fosse familiare, come avendo

qualcosa in comune con lui. Egli era mo lto interessato, non riuscendo a figurarsi chi fosse quella strana ragazza o di

dove ella giungesse e quale potesse essere il motivo per cui veniva a sedersi accanto alla tomba, come in una spedizione

botanica alla ricerca di qualche pianta speciale.

«State cercando fiori?» domandò Settimio. «Questo è un sito desolato e non è neanche la buona stagione. Nei

prati e sulla riva dei ruscelli, potreste trovare adesso la genziana frangiata. Nei boschi ci sono parecchi fiori graziosi,

saracenie, anemoni e violette vi abbondano di primavera e inazzurrano tutto il colle. Ma questa cima col suo scarso

terriccio sparso sopra una distesa di ciottoli, non è un luogo propizio ai fiori».

«Il suolo sarebbe adatto» disse la donzella, «ma il fiore non è cresciuto».

«Di qual fiore state parlando?» domandò Settimio.

«Di uno che qui non si trova» disse la ragazza pallida. «Non importa. Tornerò a cercarlo la primavera

prossima».

«Dunque abitate da queste parti?» domandò Settimio.

«Certo» disse la giovane con faccia sorpresa; «e dove dovrei abitare? La mia dimora è su questa cima».

Settimio rimase un poco sbalordito, si può ben immaginare, di scoprire che il suo retaggio da parte di padre, di

cui i suoi avi erano stati i proprietari esclusivi dagli albori del mondo, dato che lo tenevano in forza d'un contratto

indiano, era rivendicato come casa e di mora da questa vezzosa pallida donzella dallo strano comportamento, la quale

parlava come se le spettassero dei diritti sul luogo, neanche fosse spuntata sù dalla terra come uno dei selvatici fiori

indigeni che aveva or ora contemplato e colto. Comunque fosse, ora pareva in procinto di partire: s'era alzata e aveva

fatto un cenno d'addio al tumulo verdeggiante che sembra va illeggiadrito dalle sue cure.

«State per partire?» disse Settimio, guardandola esterrefatto .

«Per qualche tempo» ella rispose.

«E vi rivedrò?» egli domandò.

«Certo» disse la donzella, «questo è il mio passeggio, torno torno al ciglio del colle».

Ancora una volta Settimio provò uno strano brivido di sorpresa scoprendo che il sentiero da lui stesso tracciato

a furia di calcarlo e spianarlo, dai tempi in cui l'erba folta ne rendeva irregolari i margini fino ad adesso, che era ben

visibile, come un viottolo in mezzo ad un bosco o attraverso ad un campo quotidianamente percorso da molti viandanti,

scoprendo che questo sentiero, incarnazione dei suoi pensieri, progetti e sentimenti più segreti, che questa scrittura

tracciata dal suo corpo sospinto dalla guerra e dall'agitazione dell'anima, veniva rivendicata da una strana ragazza con

degli occhi e con una voce pervasi di malinconia, la quale pareva legata a lui da una così mesta familiarità.

«Siete la benvenuta» egli disse, tentando di ribadire almeno quel tanto di proprietà che era implicito nel fatto di

offrirla ospitalmente ad un'altra persona..19

«Sì» disse la ragazza «si dovrebbe essere sempre benvenuti sul proprio». Un vago sorriso parve aleggiarle sul

viso allorché lo disse, ma svanì tosto nella malinconia della sua espressione consueta. Proseguì sul sentiero di Settimio

mentre egli rimase a contemplarla fino a che ella ebbe toccato il ciglio del declivio là dove cominciava a calare verso la

casa di Robert Hagburn; quivi giunta si voltò e sembrò rivolgere un tenute addio al giovane mentre scendeva. Quando la

sua figura fu sparita del tutto sotto il ciglio del colle, Settimio vi si portò, seguendola, intendendo osservare da quel

punto elevato la direzione che ella avrebbe seguito, benché, a dire la verità, non si sarebbe sorpreso qualora non fosse

più stato visibile niente di lei né vicino né lontano: in breve, se ella si fosse svelata un prodigio, un'illusione della sua

mente troppo accanitamente operosa, squilibrata dal troppo riflettere su materie astruse; un'illusione degli occhi

estenuati a furia di applicarsi alla lettura del manoscritto impenetrabile; un'illusione infine dell'intelletto mistificato e

inebetito dal tentativo di afferrare l'inafferrabile. Un prodotto di stregoneria, proliferazione, fungo della tomba privo di

ogni consistenza; tuttavia ella aveva liberato la tomba dalle erbacce con dita indubitabilmente carnali. Egli celava in sè

tanto del misticismo ereditario della sua stirpe che avrebbe anche potuto crederla di natura soprannaturale, ma, giunto

sul ciglio del colle, la vide avvicinarsi alla dimora di Robert Hagburn, la cui madre comparve sulla soglia facendole

cenno di entrare con fare materno e ospitale, chiaramente mostrando di conoscere e riconoscere per umana la strana

donzella.

Il fatto che un essere così singolare si fosse stabilito nel vicinato senza che egli ne avesse contezza, non

diminuì la sorpresa di Settimio; se era un avvenimento reale di questo mondo, appariva ancor più inspiegabile che come

materia di scienza delle apparizioni o di stregoneria. Per l'intera giornata l'incidente continuò ad agitarsi nella sua

memoria frammezzo ai suoi pensieri ed ai suoi studi: di continuo, mentre marciava sul suo sentiero, quella figura pareva

corrergli al fianco sul tracciato da lei rivendicato e gli tornò in mente la singolare minaccia, o promessa che fosse, che

egli vi avrebbe trovato compagnia nell'avvenire. Al declinare del giorno, allorché incontrò la maestrina che tornava dal

la scuola, colse la prima occasione per menzionarle l'apparizione della mattinata, domandando a Rose se ne sapesse

qualcosa.

«Assai poco» disse Rose, «ma è di carne e sangue, di questo puoi star sicuro. :È una giovane rimasta confinata

a Boston dall'assedio, forse la figlia di uno degli ufficiali britannici, ed essendo di salute cagionevole ha bisogno

d'un'aria migliore talché il generale Washington le concesse il permesso di venire a vivere in campagna; come chiunque

può vedere, nulla hanno da te mere le nostre libertà da questa povera ragazza di mente inferma. E Robert Hagburn,

dovendo recare un messaggio dal campo ai capi repubblicani di qui, fu incaricato di portarci la ragazza, che sua madre

ha preso a dozzina».

«Così la poverella è matta?» domandò Settimio.

«Un po' toccata, ecco tutto» rispose Rose, «in seguito ad un dolore patito, ma è del tutto innocua e non ha quasi

bisogno di sorveglianza e sa procacciarsi un pochino di felicità fantastica tutta sua se la si lascia vagabondare

liberamente. Ma se viene contrariata può diventare pazza e sventurata».

«Le hai parlato?» domandò Settimio.

«Una o due parole stamattina, mentre mi recavo a scuola» disse Rose. «Mi ha preso per mano sorridendo e

dicendo che saremmo diventate amiche e che le dovevo mostrare dove crescono bene i fiori, dato che lei ha un

cantuccio tutto suo dove desidera piantarne. E mi ha anche domandato se per caso cresce da queste parti la Sanguinea

sanguinissima. Non l'avrei giudicata malata di mente salvo per la libertà dei suoi discorsi e per la familiarità con cui mi

ha trattata, come se fossimo in rapporto da molto tempo, o come se lei fosse finora vissuta in un paese dove non

esistono formalità e impedimenti nei contatti fra la gente».

«E ti è piaciuta?» domandò Settimio.

«Sì, quasi me ne sono invaghita a prima vista» rispose Rose, «e spero di farle un po' di bene dato che sono

della sua stessa età e forse l'unica compagna che lei si potrà trovare da queste parti. Ma ha avuto una buona educazione

ed è, com'è facile vedere, una dama».

«È strano» disse Settimio, «ma temo che sarò interrotto nei miei pensieri e nei miei studi assai spesso se ella

persiste a girovagare sul mio colle così come ha minacciato di fare. Le mie riflessioni sono forse troppo importanti per

essere accantonate a causa delle fantasie di una mezza pazza».

«Questa è una cosa ben dura a dirsi!» esclamò Rose, colpita dal freddo egoismo del fidanzato, anche se si

asteneva dal chiamare quell'egoismo col suo nome. «Lascia che la poveretta vagabondi tranquillamente per il sentiero,

anche se è tuo. Forse dopo un po' di tempo i tuoi pensieri ne trarranno un giovamento».

«I miei pensieri» disse Settimio, «sono d'un gene re speciale, e non possono ricevere soccorsi da nessuno e se

pure lo potessero, sarebbe soltanto da un uomo di scienza saggio, di lunghi studi e di vasta esperienza, il quale

m'illuminasse intorno alla base ed ai fondamenti delle cose, agli scritti mistici, agli elementi chimi ci, ai misteri del

linguaggio, ai principii ed al sistema in virtù dei quali fummo creati. Non credo che ne avrò notizia da una ragazza

toccata nel cervello».

«Temo» rispose Rose Garfield, con serietà e scostandosi impercettibilmente da lui, «che nessuna donna ti

possa aiutare gran che. Tu disprezzi il pensiero della donna e non hai bisogno del suo affetto».

Settimio disse qualcosa di dolce e soave e anche, in certa misura, di vero, circa il bisogno che provava

dell'affetto e della simpatia di almeno una donna, quella che gli stava accanto, per infondere calore alla propria esistenza

e dar conforto alle parti vuote del cuore. Ma mentre parlava era come se qualcosa gli pesasse sulla lingua, gli pareva

infatti che la solitaria impresa che andava perseguendo lo distraesse dalla simpatia di cui ora discorreva, egli

concentrava i suoi sforzi ed i suoi interessi esclusivamente su se stesso e quanto più si fosse avvicinato al successo tanto.20

più ne sarebbe stato travolto, sicché il suo estremo trionfo avrebbe coinciso con una completa separazione da tutto ciò

che sulla terra respirava, con la sua metamorfosi da attore interessato in freddo e alienato spettatore della calda e

affiatata vita dell'umanità. Così questo suo incontro con Rose si svelò di quelli che, per ignoti motivi, suscitano

un'ineffabile nube tra due innamorati separandoli come per un lugubre e gelido incantesimo. Di solito basta una parola

affiorata dal cuore, per spezzare l'incanto, e costringere l'invisibile e nemica essenza, frapposta astutamente

dall'avversario dell'amore, a svanire, riavvicinando ancor di più gl'innamorati, ma in questo caso era forse l'amore lo

stato illusorio e l'alienazione la realtà, la disincantata verità. Comunque, allorché il sentimento svanì, nel cuore di Rose

non ci fu reazione alcuna, non sorse una più fervida amorevolezza come è di norma in questi casi. Quanto a Settimio,

altro aveva cui pensare, e rivedendo in seguito Rose Garfield nemmeno ricordava che quando la volta precedente si

erano separati egli aveva pur sentito che lei era rima sta ferita.

A furia di scrutare costantemente il manoscritto, Settimio cominciò a capire che esso era vergato in uno strano

miscuglio di latino e d'inglese arcaico, costellato di paragrafi di ciò ch'egli era persuaso fosse una scrittura mistica, e

questi passi ricorrenti, di totale inintelligibilità, gli parvero necessari a capire appieno una qualsiasi porzione del

documento. Ciò che se ne poteva scoprire era bizzarro, curioso, ma frustrante ed enigmatico perché vi sembrava

implicito un sommo proposito che si sarebbe potuto svelare soltanto per mezzo di ciò che rimaneva nascosto.

Settimio aveva letto, nella vecchia biblioteca dell'università, mentre era studente, un'opera di crittografia e sulle

opere cifrate, ma essendo attratto dalla mera curiosità delle cose occulte e non aspettandosi mai di poter utilizzare un

giorno quelle conoscenze, ne aveva ricavato soltanto una idea minima di quanto era necessario per decifrare un passo

segreto. Giudicando da ciò che riusciva a estrarne, era propenso a ritenere che tutto il saggio si riferisse ad una certa

regola di vita ascetica, al rinnegamento dei piaceri, poiché tali argomenti vi erano reiterati con insistenza dappertutto,

benché senza alcun riferimento a motivazioni religiose o morali; e sempre quando l'autore pareva sul punto di giungere

ad un punto preciso, scantonava nel suo cifrario. Eppure, a giudicare da quel poco (o nulla) che Setti mio riusciva a

scoprire del suo significato. lo strano scritto esercitava un influsso mistico agendo sulla fantasia di Settimio e,

combinandosi con gli ultimi singolari episodi della sua vita, con il fatto che il suo pensiero restasse sempre fisso a

quest'unico argomento, con la sua abitudine di passeggiare sulla vetta, in una solitudine interrotta soltanto da una pallida

ombra di fanciulla, lo relegava fuori del mondo vivente. Rose Garfield se n'accorse, sapeva e sentiva ch'egli stava

allontanandosi da lei e gli rispose con un riserbo che non sarebbe riuscita a superare nemmeno se l'avesse voluto.

Peccato che il suo amico d'infanzia Robert Hagburn non potesse ora esercitare alcuna influenza su di lui,

essendo ormai arruolato regolarmente nell'Esercito Continentale e impegnato nella spedizione di Arnold contro Quebec.

La guerra in cui tutti erano coinvolti così seriamente ed appassionatamente ebbe forse un'influenza sulla mente

di Settimio perché mise tutti in uno stato estremistico ed innaturale, unificò entusiasmi d'ogni genere e sollevò ciascuno

o al particolare eroismo o alla particolare pazzia cui era incline; e tanto più Settimio seguì follemente il suo cammino

solitario quanto più gli altri ne seguivano uno diverso con entusiasmo. In tempi di rivoluzioni o di turbamenti sociali

tutte le assurdità si sfrenano, la misura data dal quieto buon senso e dalle abitudini, l'ordinaria decenza sono in parte

smarrite. Più gente diventa matta, credo; sia i reati contro la morale che la licenza femminile diventano più cospicui;

suicidi, omicidi, tutti gli eccessi incontrollabili dei pensieri umani, che si incarnano poi in atti di follia, si producono più

sovente, destando un minor terrore negli spettatori. Così avvenne con Settimio; mancavano l'agio e la verità del

pubblico esame che tutto vaglia con la sua critica perspicace, in quei tempi di opinioni ribollenti e di principii capovolti;

una nuova epoca s'annunciava e la nuova fase che Settimio attraversava attraeva, quando pure venisse notata, una

minore attenzione.

Così egli continuò a meditare sul manoscritto nel suo studio, tenendolo nascosto sotto chiave in un anfratto del

muro, neanche contenesse il segreto d'un delitto; a passeggiare sulla cima, dove al tramonto sempre giungeva la pallida

e folle donzella che continuava ad osservare il tumulo con una cura pertinace che appariva assai strana a Settimio. Poi

venne l'inverno con le nevicate profuse e anche allora, non volendo rinunciare al solito luogo dove faceva un po' di

moto e la cui monotonia serviva a tenergli ferma la mente su un unico pensiero, Settimio scavò un sentiero nella neve e

continuò a farci le sue passeggiate. Però a questo punto perdette la compagnia della ragazza, che rabbrividì all'arrivo

della prima neve e contemplandone il primo cumulo bianco sulla collinetta, disse a Settimio: «Tornerò a cercarvi a

primavera».

[Settimio è sul punto di disperarsi a causa della mancanza d'una guida per i suoi studi].

L'inverno trascorse e la primavera cominciò a diffondere il suo verde rigoglio sulle parti meglio esposte del

paesaggio, benché sul versante settentrionale dei muretti di pietra e negli angoli settentrionali dei colli restassero ancora

i residui delle nevicate. La vetta di Settimio, il cui suolo si liberava subito d'ogni umidità, era ridiventata una congeniale

meta di passeggiate, e un giorno egli vi camminava meditando sulle difficoltà ancora insormontabili che ostacolavano

l'interpretazione del manoscritto, eppure sentendo il nuovo empito della primavera recargli la speranza nonché l'energia

e la prontezza necessarie ad un nuovo sforzo. Mentre camminava avanti e indietro restò sbalordito, voltandosi al

termine del suo giro, a vedere una figura che avanzava verso di lui; non già la donzella che era abituato a vedervi, ma

una figura diametralmente opposta. (La quale vede un ragno spenzolante dalla tela e lo scruta minuziosamente).

Era un uomo basso, fatticcio, piuttosto anziano, vestito d'un cappotto di taglio quasi militare; il cappello dalla

falda alzata, secondo la moda di allora, piuttosto usato, di cui un'areola era d'aspetto più nuovo, essendone stata da poco

strappata una coccarda; aveva in mano una pipa tedesca ben annerita e, camminando, se la recava alle labbra, emettendo

volute di fumo, spargendo nel gradevole ponentino la fragranza d'un ottimo tabacco di Virginia. Avanzava con tutta

lentezza e Settimio, rallentando il passo un pochino, gli andò incontro altrettanto adagio, sentendo una certa.21

indignazione, a onor del vero, per quell'intrusione sul suo sacro colle; alla fine s'incontrarono accanto al memorabile

tumulo sul quale l'erba e le foglioline dei fiori avevano cominciato a spuntare. Lo straniero fissò Settimio intensamente,

rivolse un saluto con noncuranza, alzando la mano e si tolse la pipa di bocca.

«Il signor Settimio Felton, immagino» disse.

«Questo è il mio nome» rispose Settimio.

«Io sono il dottor Jabez Porstoaken» disse lo straniero, «giá chirurgo presso il sedicesimo reggimento di Sua

Maestà britannica, che lasciai allorché l'esercito di Sua Maestà abbandonò Boston, volendo cercar fortuna nella vostra

patria, per offrire al popolo il beneficio del le mie conoscenze scientifiche e anche per applicare certe nuove modalità

della scienza medica, cosa che non avrei potuto fare rimanendo nell'esercito».

«Credo che abbiate ragione, dottor Porstoaken», disse Settimio, un po' confuso e sconcertato, tanto era

disabituato alla compagnia d'estranei.

«Quanto a voi, signore» disse il dottore, che aveva un modo molto rude e brusco di parlare, «debbo ringraziarvi

di un favore che mi avete fatto».

«Davvero, signore?» disse Settimio, sicuro com'era di non aver mai visto prima d'allora la tozza figura del

dottore.

«Ebbene» disse il dottore, fumando con calma, «a me nella persona di mia nipote, una poverella malaticcia e

nervosa, che ama camminare su codesta vetta da cui voi non l'avete allontanata».

«Siete lo zio di Sibyl Dacy?» disse Settimio.

«Esattamente, il fratello di sua madre» disse il dottore, con un grottesco inchino. «Così, venendole a fare una

visita, la prima che l'assedio mi abbia consentito, per vedere come sta, colgo l'occasione per porgervi i miei omaggi,

tanto più che mi risultate un giovane di una certa erudizione, e non se ne incontrano tanti in questo paese».

«No» disse Settimio bruscamente, sospettando che questo bizzarro dottor Portsoaken non fosse del tutto

sincero, e che lo stesse canzonando: «Siete stato male informato. Non so niente che valga la pena di conoscere».

«Olà!» disse il dottore, facendo una gran fumata con la pipa. «Se ne siete convinto davvero, siete uno degli

uomini più saggi che io abbia incontrato, nonostante l'età giovanile. Avevo due volte la vostra età allorché giunsi a

codesto punto, e ancora adesso mi capita a volte d'essere così sciocco da mettere in dubbio l'unica cosa che abbia mai

saputo con tutta certezza. Ma suvvia, mi invogliate tanto più a discorrere con voi. Se sommiamo le nostre due

manchevolezze chissà che non formino una positiva conoscenza».

«E che uso si può fare di pensieri abortivi?» disse Settimio.

«Le vostre riflessioni si volgono per caso alla scienza?» disse il dottor Porsoaken. «Su questo piano posso

venirvi incontro, offrendovi subito tutte le false conoscenze e l'empirìa che mai possiate sperare di trovare da solo,

anche mettendocela tutta. Avete mai provato a studiare i ragni? Ecco il mio punto forte! Tutto l'interesse che porto alla

vita l'ho sospeso ad una tela di ragno».

«Non ne so niente, signore» disse Settimio, «mi limito a schiacciarli quando li vedo attraversare il pavimento e

a spazzare via i festoni delle loro tele che abbiano avuto la fortuna di scampare alla scopa di mia zia Keziah».

Schiacciarli! Spazzarne via le tele» gridò il dottore adirandosi e agitando la pipa in direzione di Settimio.

«Signore, questo è sacrilegio! Peggio d'un delitto. Ogni filo d'una tela di ragno vale più d'un filo d'oro; e prima che

s;ano trascorsi vent'anni da oggi, una domestica che disturbi uno di questi animali sacri verrà picchiata a morte con la

sua stessa scopa. Ma, ditemi: vogliamo parlare di botanica, delle virtù delle erbe?».

«Mia zia Keziah potrebbe venirvi incontro su codesto punto», disse Settimio: «ella ha una conoscenza; intima e

originale delle loro virtù é per mezzo di esse salva o uccide quanto un luminare di facoltà. Per quello che mi concerne, i

miei studi non si sono indirizzati in quella direzione».

«Male!» disse il dottore, guardandolo con intenzione. «L'universo è racchiuso nel germogliare d'una pianta.

Dovreste cominciare a studiare a partire da ciò che vi circonda, ad esempio, da ciò che cresce su questo tumulo» e

guardando il sepolcro accanto al quale si trovavano, vi sferrò un calcio il quale sembrava così colmo di dispetto e di

disprezzo che il cuore di Settimio ne sentì il colpo. «Su questo tumulo vedo certi esemplari di piante che dovreste

esaminare».

Curvandosi sulla tomba mentre parlava, il dottore sembrava dedicare un'attenzione ancor più intensa a quanto

vi scorgeva, stette piegato in due fino a che gli s'imporporò la faccia, poiché era il tipo d'uomo cui conviene tenersi

dritto nella posizione giusta. Alla fine si alzò, borbottando: «Curioso! Curiosissimo!».

«Ci vedete qualcosa di notevole?» domandò Setti mio con un qualche interesse. «Sì» disse il dottore,

recisamente. «E non impo ta che cosa! Verrà il tempo in cui forse gradirete di saperlo».

«Volete venire a casa mia, in fondo al colle, dottor Portsoaken? Non sono un dotto e non ho alcun titolo per

conversare con voi, salvo un sincero desiderio di diventare più saggio. Se questo basta a commuovervi e a indurvi a

concedermi la vostra compagnia, vi sarò ben grato».

«Signore, eccomi con voi» disse il dottor Porstoaken. «Vi dirò quanto so, e volendo essere con voi del tutto

franco, vi garantisco che questo accrescerà la quantità di pericolosa follia che ora vi occupa la mente, e agevolerà il

cammino verso la rovina. Fate dunque la vostra scelta, preferite conoscermi meglio o no?».

«Né mi ritraggo né temo né spero gran cosa», disse Settimio tranquillamente. «Tutto ciò che mi possiate

comunicare, se pure lo potete, riceverò senza tema e ve ne renderò grazie secondo il merito».

Così dicendo mostrò la strada giù per il colle, il ripido sentiero che calava bruscamente verso la parte

posteriore della sua casetta nuda e disadorna; il dottore lo seguì con un abbondante turpiloquio, avendo l'orribile.22

abitudine di bestemmiare, a causa del percorso accidentato, cui le sue gambette corte male si adatta vano. Zia Keziah li

incontrò alla porta, dando uno sguardo penetrante al dottore, che la ricambiò fissandola con altrettanta intensità e

borbottando nel contempo fra i denti; a dire il vero zia Keziah era degna di imprecazioni quanto donna poteva esserlo,

perché, qualunque cosa fosse stata nei suoi giovani giorni, adesso era il più strano miscuglio di indiana e di erborista,

con un aspetto di vecchia zitella tutta ripiegata su se stessa e con un tocco di strega; in testa portava un fazzoletto, aveva

un colorito giallo e cenerognolo e sembrava assai arrabbiata.

Allorché Settimio fece entrare il dottore nel suo studio e stava per seguirvelo, zia Keziah lo tirò indietro.

«Settimio chi è costui che ti porti in casa?» domandò.

«Uno che ho incontrato sul colle», rispose il nipote; «si chiama dottor Porstoaken e viene dall'Inghilterra. Dice

di conoscere le erbe e altri misteri, forse ti somiglia. Se vuoi parlargli, offrigli la cena e sc prirai chi è».

«E tu che cosa vuoi ricavarne, o Settimio?» ella domandò.

«Io? Niente; cioè, non m'aspetto niente» disse Settimio.

«Ma sono smarrito, vado cercando dappertutto e perciò non rifiuto nessun indizio, neanche la più fievole

possibilità di soccorso che mi si presenti. Lo stimo un venditore di fumo, ma giudico tale anche il più erudito dei suoi

colleghi e in genere qualsiasi altro professionista, ed in lui c'è una rudezza che forse testimonia di una maggior scienza

di quanto potrebbero denotare delle maniere più compite. Così, essendomisi presentato sulla mia strada, me lo piglio».

«Vecchiaccio brutto e sinistro se mai ne vidi uno», borbottò zia Keziah. «Bene, avrà il suo pranzo; e se gli va

di chiacchierare di decotti, io ci sto».

Così Settimio segui il dottore nello studio, dove lo trovò con in mano la spada che aveva preso di sopra il

caminetto e che teneva sguainata, esaminandone l'elsa e la lama con grande minuzia; l'elsa era lavorata a sbalzo con

certi simboli araldici appartenenti senza dubbio alla famiglia del suo defunto proprietario.

«Ho già visto quest'arma da qualche parte», disse il dottore.

«Può darsi» disse Settimio, «un tempo la portava un uomo che servì nell'esercito del vostro sovrano».

«E voi gliel'avete presa?» disse il dottore.

«Se così fu, certo non ho motivo di vergognarmene, e neppure timore di raccontarlo sebbene preferisca non

parlarne», rispose Settimio.

«Non siete dunque curioso, non v'interessa conoscere la famiglia, la vicenda privata, i progetti, di colui che

portò questa spada e che mai più la trarrà dal fodero?» interrogò il dottor Porstoaken. «Povero Cyril Norton! Una

vicenda singolare era legata a quel giovane, e un singolare mistero egli portava con sé, di cui forse non si è ancora

giunti alla fine».

A Settimio sarebbe stato assai gradito conoscere il mistero che aveva intravisto nell'uomo da lui ucciso; ma

temeva che ne venisse fuori qualche domanda in torno al documento ancora in suo possesso; per ciò pre feriva evitare

l'argomento.

«Non si può pretendere ch'io mi interessi più che tanto a queste storie di famiglia inglesi. Da cento e

cinquant'anni almeno la mia famiglia ha cessato di essere inglese», rispose, e soggiunse: «Più che il passato,

m'interessano il presente e il futuro».

«Non c'è differenza», disse il dottore sedendosi e mettendo nella pipa una presa di tabacco.

Non è necessario seguitare a descrivere la visita dell'eccentrico dottore fino alla sera. Basti dire che vi era una

sorta d'incanto, o piuttosto di fascinazione, in quel rozzo vecchio, a dispetto dei suoi strani modi, del suo continuo

sbuffare tabacco; a dispetto, persino, di un incessante assorbimento di robusti liquori, che egli richiedeva di continuo e

di cui il migliore a disposizione era un certo decotto, infuso o distillato, di proprietà di zia Keziah alla base del quale

c'era il rum, mischiato a certe erbe amare raccolte dalle mani stesse della vecchia, durante le appropriate fasi lunari;

bevanda ben nota a coloro che zia Keziah favoriva della sua amicizia; sebbene si fosse udito dire che proprio quella

bevanda circolava ai raduni di streghe, essendo stata distillata su una ricetta del diavolo stesso. E in realtà, a giudicare

dal gusto (perché anch'io una volta bagnai le labbra in un infuso preparato con gli stessi ingredienti e nello stesso modo)

direi proprio che l'origine infernale fosse la vera.

[«Credevo», disse il dottore, «di poter bere qualsiasi cosa, ma...»].

Ma il valoroso dottore sorseggiò ancora e ancora, e disse con parole blasfeme che era proprio la bevanda giusta

e che mancava solo l'elleboro a renderla perfetta. Poi, traendo dalla tasca una fiaschetta di notevoli dimensioni ricoperta

di pelle e con un tappo d'argento avvitato all'orlo, l'offrì a Settimio, che declinò l'offerta, e a zia Keziah, che preferì il

proprio decotto, e infine la vuotò lui stesso con un rumoroso schiocco di soddisfazione, dichiarando ch'era un cognac

diabolicamente buono.

Dopo, lui e Settimio parlarono; e, non so come, c'era in quell'uomo singolare una grande immaginazione, una

influenza che è difficile dire se fosse fisica o spirituale. D'altro canto, per molto tempo Settimio non aveva avuto che

scarsissimi rapporti con altri uomini; e nessuno con uomini che potessero comprenderlo; il medico, inoltre, pareva

condurre costantemente il discorso in armonia con i pensieri del suo ospite, poiché parlava di cose occulte, di persone

che avevano posseduto il segreto di una lunga vita ed erano morte alla fine per puro accidente, sul potere e le qualità di

erbe comuni, che egli riteneva talmente vasti che, tutto intorno ai nostri piedi - vigoreggiando nel bosco selvaggio lungi

dall'uomo, o seguendo i suoi passi ove egli fissi la sua residenza, oltre i mari, dall'antica dimora donde è emigrato

seguendolo per ogni dove e offrendosi diligentemente e continuamente alla sua attenzione, mentre egli si limita a

strapparle via di mezzo alle piante (al confronto senza valore alcuno) che coltiva, e le butta da parte, imprecando perché

la Provvidenza le ha seminate così fittamente - crescono quelle che noi chiamiamo le erbacce, solo perché le.23

generazioni, dall'inizio del tempo fino ad ora, hanno mancato di scoprire le loro meravigliose virtù, potenti nella cura di

ogni male, potenti nel procurare lunghi giorni.

«Ogni cosa buona» disse il dottore bevendo un altro sorso di cognac, «l'abbiamo ai nostri piedi, e non c'è da far

altro che raccoglierla».

«Questo è vero» disse zia Keziah bagnando le labbra nella sua diabolica pozione; «queste erbe furono tutte

raccolte entro un raggio di cento metri da questo punto preciso, sebbene per scoprire le loro virtù ci volesse una donna

di cervello fino».

La vecchia se ne andò alle sue faccende domestiche, e fu allora che Settimio sottopose al dottore la lista di erbe

che aveva tratta dal vecchio documento, chiedendogli, come cosa attinente alla loro conversazione, se ne conoscesse

qualcuna, poiché la maggior parte di esse aveva nomi curiosi, alcuni latini, altri inglesi.

Il rozzo dottore inforcò gli occhiali e percorse il foglio di carta gialla e consunta con occhi penetranti

sbuffandovi sopra grandi nuvole di tabacco, come se a quel modo ne potesse cavar fuori il significato segreto; borbottò

a se stesso, prese un altro sorso dalla borraccia, e poi, rimettendolo sul tavolo, parve meditare.

«Questo infernale vecchio documento» egli disse, alla fine, «non l'ho mai veduto prima, e neppure ne ho mai

sentito parlare, comunque fui tanto pazzo in gioventù, né oso dire se adesso sono più saggio, ma allora ero tanto pazzo

da cercare certe conoscenze segrete che i padri della scienza ritenevano raggiungibili. Ora, in molti ambienti, fra gente

con la quale venni in contatto a causa delle mie ricerche, sentii parlare d'una certa ricetta, smarrita da qualche

generazione, che avrebbe con tenuto l'autentica virtù vivificante. Si dice che l'antenato d'una grande e antica famiglia

inglese possedesse il segreto, essendo uomo di scienza e amico di frate Ruggero Bacone, si diceva che avesse preparata

lui stesso la pozione, in parte seguendo i precetti del maestro ed in parte mediante esperimenti personali, e si pensa che

potrebbe essere vivo a tutt'oggi, se non fosse caduto malauguratamente nella guerra delle due Rose; sapete bene infatti

che nessuna ricetta di longevità può resistere ad una vecchia freccia inglese o alla pallottola di piombo d'una nostra

carabina».

«E quale è stata la storia successiva di questo documento?» domandò Settimio.

«Si credeva che fosse conservato dalla famiglia» disse il dottore, «e sempre si è detto che il capo e primogenito

della famiglia avesse la possibilità, volendo, di vivere perpetuamente in tal senso. Ma sembra che si frapponessero degli

ostacoli. Esisteva probabilmente una certa dieta ed un regime da osservare, certe rigide regole di vita da seguire, un

certo ascetismo da subire, che non riuscivano del tutto gradevoli a dei giovani; e, trascorsa la giovinezza, il corpo

diventa inetto a rigenerarsi e a vincere i semi della decadenza e della morte che nel frattempo si sono robustamente

sviluppati. In breve, da giovane, il titolare del segreto trovava che le condizioni della vita immortale erano troppo dure

per poter essere accettate, perché implicavano la rinuncia alla maggior parte delle cose che, a suo avviso, rendevano

gradita l'esistenza; e quando ci si formava una mentalità più razionale già era troppo tardi. Così per tutte le generazioni,

dal tempo di frate Ruggero Bacone in poi, i Norton sono nati, hanno goduto il loro tempo di gioventù, si sono

preoccupati durante l'età adulta, e sono barcollati attraverso la vecchiaia, e, salvo quando la spada o il piombo o la

febbre o altro li abbiano tolti di mezzo prima, morendo infine nei loro letti, come uomini ai quali non fosse data scelta

alcuna; così questa vecchia carta ingiallita non ha recato vantaggio ad alcun mortale. Né vedo come possa far del bene a

voi, dato che ignorate le regole morali o dietetiche essenziali alla sua efficacia. Ma come ve la siete procurata?».

«Per ora non ha importanza» disse cupamente Settimio. «Basti sapere che ne sono il legittimo titolare ed erede.

Siete in grado di leggere questa grafia antica?».

«Per buona parte sì» disse il medico; «ma lasciate che vi dica, mio giovane amico, che non ho fede alcuna nel

segreto; e, avendo già avuto a che fare con cose del genere, sono in grado di giudicare. Gli antichi medici e chimici

nutrivano strane idee intorno alle virtù delle piante, delle droghe e dei minerali e fantasie altrettanto strane intorno ai

modi di far agire tali virtù. Buttavano cento diverse potenzialità in un calderone, mettendole al fuoco e aspettandosene

un decotto che le contenesse tutte e ciascuna oltre ad una virtù propria. In realtà il risultato più probabile era una

reciproca neutralizzazione ed il preparato ne risultava privo d'ogni virtù salvo che un ingrediente più forte tingesse il

tutto».

Rilesse la carta e proseguì: «La cosa fra tutte più notevole in questa ricetta è il fatto che sia formata in buona

parte con le piante più comuni, quelle che si calpestano fuor della soglia di casa, nel giardino, durante le passeggiate nel

bosco, dovunque si vada. Non dubito che zia Keziah le conosca, e forse ne ha combinato un infuso in quella bevanda

d'inferno il cui ricordo continua ad agitarmisi nello stomaco. Credevo d'aver inghiottito il diavolo in persona, messo a

bollire dalla vecchia. Sarebbe strano davvero se questo infuso fosse il medesimo che frate Ruggero Bacone ed il suo

accolito scoprirono mediante la loro scienza. C'è però un ingrediente, una di quelle piante che non credo la vecchia

abbia potuto ficcare nella sua pentola di elisir infernale; si tratta d'una pianta rara, che non cresce da queste parti».

«E che cos'è?» domandò Settimio.

«Sanguinea sanguinissima» disse il dottore, «non ha alcun nome volgare, e produce un bellissimo fiore che

non ho mai visto benché me ne abbia mandato alcuni semi un dotto amico dalla Siberia. Le altre, spogliate dei loro

nomi latini, sono piante del tutto comuni come piantaggine, amaranto, bardana; e ragione vuole che, se la Natura

vegetale ha in serbo per gli uomini medi cine di così meravigliosa efficacia, e intende usarle, le avrà sparse a piene mani

dovunque, affinché siano accessibili».

«Ma questa dopo tutto sarebbe una beffa da parte dell'antica Signora» disse il giovane con qualche amarezza,

«la quale le renderebbe accessibili soltanto in apparenza, poiché non rivelandoci come prepararle per ottenerne gli

effetti voluti, questi ci sfuggono, esatta mente come se tutti gl'ingredienti fossero celati alla vi sta ed alla conoscenza, al.24

centro della terra. Siamo i giocattoli e gli zimbelli della Natura, ella si diverte con noi durante la nostra breve vita e poi

ci spezza per mero capriccio, ridendoci in faccia».

«Attento, buon uomo» disse il dottore con la sua rude risataccia. «Ho il sospetto che siate già di là dell'età in

cui le grandi meditazioni potrebbero farvi del bene; codesto discorso mostra che nel vostro cuore si sono accumulate

una forza, una durezza ed un'amarezza che non sono proprie della tenera età».

Settimio non badò quasi alla beffa del truce vecchio dottore, ma spese il resto del tempo a cavare tutta

l'informazione che poteva dal suo ospite; e benché non si potesse persuadere a mostrargli il prezioso e sacro

manoscritto, tuttavia lo interrogò quanto poteva a fondo, pur senza tradire il segreto, intorno alle maniere di risolvere

scritture cifrate.

Il dottore non mancò di notare che questo suo conoscente dalla fronte aggrondata e dagli occhi penetranti

doveva nutrire un proposito non apertamente confessato nel porgli quelle domande pertinaci e precise; scoprì che tutte

rinviavano ad un unico oggetto, e forse ebbe la certezza che Settimio possedeva qualche scritto geroglifico o cifrato o

altrimenti segreto che dava istruzioni intorno al modo di operare con la strana ricetta che gli aveva mostrato.

«Meglio che vi fidiate completamente di me» egli disse. «Non che io non sia disposto a darvi comunque tutto

l'aiuto possibile, dato che mi avete già beneficato di là di quanto immaginiate. No, non volete? Bene, se cambiate idea,

cercatemi a Boston dove ho deciso di risiedere per esercitare la professione, e vi servirò nella misura della vostra follia;

poiché v'avverto, follia è».

Null'altro degno di essere raccontato avvenne durante la visita del dottore e a tempo debito egli scomparve,

quasi, si sarebbe detto, in uno sbuffo di fumo, lasciando dietro di sé un odore di cognac e di tabacco e la leggenda d'uno

stregone che si sarebbe aggirato nei paraggi. Settimio si mise all'opera con quegli elementi che aveva ricavato da lui; ma

l'incontro l'aveva reso conscio al meno di una cosa, cioè che doveva procurarsi tutte le possibili conoscenze di botanica

scientifica per poter preparare la ricetta. Questa era il frutto di tutte le conquiste scientifiche dell'epoca che l'aveva

prodotta (così riferiva la leggenda e sembrava invero probabile), un gran filosofo vi aveva profuso la sua erudizione e

tutto era stato temperato, regolato, migliorato dall'intelletto vivace, brillante del discepolo; forse, pensava Settimio,

un'altra intelligenza seria e profonda aggiunta alle precedenti poteva portare la ricetta ad una perfezione ancor maggiore.

Almeno, poteva tentare di farlo. Così pensava e si mise a raccogliere tutti i libri relativi a tali studi che potesse trovare;

spese una giornata andando a piedi fino a Cambridge, dove fece ricerca di tali opere negli scaffali della biblioteca

universitaria, prendendoli in prestito da quell'istituto duramente provato dalla guerra e portandoseli a casa, dove si

applicò allo studio con una serietà così zelante che forse non aveva mai avuto l'eguale in una indagine di natura così

tranquilla. Un mese o due di studio e di pratica fatta sulle piante che trovò in cima al suo colle o lungo il ruscello o in

luoghi circostanti gli fecero fare dei buoni progressi. In tale ricerca fu assistito da Sibyl, la quale svelò una conoscenza

assai vasta in certi settori della botanica, specie riguardo ai fiori e, alla sua maniera fredda e quieta, collaborò con lui e

lo affiancò, come già da lungo tempo era usa fare, compagna osservatrice di lui, da lui osservata, che si insinuava nelle

sue ricerche quasi come uno spirito guida.

Ma questa pallida ragazza non era l'unica collaboratrice dei suoi studi, l'unica istruttrice che Settimio si fosse

trovata. L'osservazione del dottor Porstoaken in torno alla fantastica possibilità che zia Keziah potesse aver ereditato dai

suoi avi indiani la stessa ricetta individuata dalla scienza di frate Ruggero Bacone e del suo allievo, non mancò

d'impressionare Settimio e di restargli confitta nella memoria. Così, poco dopo la partenza del dottore, il giovane una

sera colse l'occasione per dire alla zia che il suo stomaco era, a quel che gli sembrava, un pochino fuori sesto a causa

dell'eccessiva applicazione e che forse ella avrebbe dovuto somministrargli una qualche bevanda di erbe che gli potesse

riuscire di giovamento.

«Questo lo posso fare, caro» disse la vecchia, «e sono ben felice che tu abbia avuto il buon senso di

chiedermelo, alla fin fine. Ecco la bottiglia, e anche se quello sciocco medico blasfemo torse il suo nasone rovinato dal

cognac, fiutandone il contenuto, io ci sto quando che sia a fare a gara con lui nel bere, certa come sono di aver la

meglio».

Così dicendo tolse dalla credenza la brocca marrone chiusa da un tappo attorno al quale era ravvolto uno

straccio per rendere più ermetica la chiusura, riempì un boccale e lo depose sul tavolo davanti a Settimio. «Ecco, bimbo,

senti l'odore; basta quello a farti bene; ma prova a buttarlo giù e vedrai se non vivi più a lungo».

«Davvero, zia Keziah, è proprio così?» domandò Settimio, un po' sbalordito dall'esortazione che in qual che

modo coincideva con ciò che egli esigeva da una medicina. «Questa è una bella proprietà».

Fissò lo sguardo nel boccale e vi scorse un infuso torbido e giallino, nient'affatto attraente alla vista; l'odorò e

quasi si convinse che la zia Keziah mescolasse agli altri ingredienti un'erba americana assai maleodorante, detta cavolo

fetido, in quella sua stregonesca pozione. L'assaggiò, non un sorso, ma una buona dose, deciso com'era a sincerarsi di

quel che fosse quella roba sotto ogni riguardo. La pozione parve a tutta prima bruciargli la bocca che era abituata

soltanto all'acqua, scottandolo fin giù nello stomaco, dandogli la sensazione della profondità delle sue viscere con una

traiettoria di fuoco che si spingeva sempre più giù; poi, peggiore del fuoco, gli giunse un gusto della più nefasta

amarezza e nauseosità, quale non aveva mai immaginato esistesse e che minacciò di sconvolgergli radicalmente

gl'intestini; tuttavia, conoscendo la permalosità della zia Keziah riguardo alla pozione, e come ella la ritenesse

sacrosanta, fece uno sforzo autenticamente eroico, soffocò il suo tormento, mantenne immota la faccia, salvo una sola

violenta convulsione, che lasciò affiorare per salvare la vita.

«Ha un sapore che ne dovrebbe garantire la potenza, zia Keziah» disse lo sventurato giovane; «vorrei che tu mi

dicessi di che cosa è fatta e come la prepari, perché ho notato che sei inflessibile e segreta al riguardo»..25

«Ha ha! Te ne sei accorto, dunque?» disse zia Keziah, prendendo un sorso del suo benamato beveraggio e

ghignando con faccia e occhi gialli quanto il liquido che stava trangugiando. Gli balenò l'idea che zia Keziah, per

temperamento e in tutte le sue qualità era assai simile a questa sua bevanda, quasi se ne fosse saturata a furia di

trangugiarla. Quindi, bevuto che ebbe, se ne beò, e assaggiò e odorò quel liquore infernale, come un intenditore di vini

una qualità fragrante e delicata. «E vuoi sapere come lo faccio? Anzitutto, bimbo, dimmi onestamente: ti piace questa

mia bevanda? Perché se no, smettiamo di parlarne sull'istante».

«L'amo per le sue virtù» disse Settimio, temporeggiando con la propria coscienza, «e per questo motivo la

preferisco al vino più raro».

«Fin qui parole d'oro» disse zia Keziah, la quale non concepiva che il suo liquore non fosse una delizia del

palato. «È il liquore più ricco di virtù fra quanti mai ci sono stati e perciò non c'è da aver paura di ber ne troppo. E vuoi

sapere di che cosa è fatto? Bene, ho pensato parecchie volte che te l'avrei detto, Setti, bimbo mio, una volta che tu

avessi l'età necessaria, perché non ho altra eredità da lasciarti e tu sei del mio sangue, salvo che non abbia qualche

prozio fra gl'Indiani del capo Cod. Ma, innanzi tutto, hai da sapere come questo buon beveraggio e la capacità di

prepararlo, mi sia stato trasmesso in eredità dai re e sacerdoti nostri antenati nonché dal vecchio capoccia o mago tuo

bisavolo e che, così si dice, mischiò l'acquavite con gli altri ingredienti, aggiungendo così l'unica cosa ancora necessaria

per renderlo perfetto».

Così zia Keziah, avendone di nuovo gustato, s'era messa comoda e beata e, dopo aver sollecitato Settimio a non

trascurare di berne (egli declinò, sostenendo che un sorso alla volta fosse bastevole per un principiante, essendo le virtù

oltre che ammirevoli, assai forti), gli narrò una leggenda stranamente folle e rozza dove si mescolavano la vita indigena

e la civile e le superstizioni di entrambe e che tuttavia presentava una certa analogia con la storia narrata dal medico che

ave va tanto impressionato Settimio.

Ella raccontò che in un'epoca remota c'era stato un capo nella foresta, un re degl'Indiani, dal quale lei e

Settimio, lo disse con uno sguardo d'orgoglio, discendevano, ultimi forse a ereditare una stilla di quel sangue regale,

sapiente e bellicoso. Il capo era vissuto molto a lungo, più a lungo di quanto si potesse calcolare poiché gl'Indiani non

tenevano annali e parlavano solo di molte lune; essi dicevano che era vecchio, più vecchio degli alberi più vetusti, quasi

quanto le colline, e capace di rammentare i giorni di uomini divini, possessori di arti ormai dimenticate. Era un uomo

saggio e buono, e poteva antivedere il futuro quanto ricordava il passato e continuò a sopravvivere finché la sua gente

temette che vivesse per sempre, sconvolgendo tutto l'ordine di natura; pensarono fosse gran tempo che un uomo così

buono, un così eccelso guerriero e mago, andasse alle superne riserve di caccia e che un così saggio consigliere andasse

a raccontare le sue esperienze di vita al Gran Padre, dandogli un opportuno ragguaglio delle faccende di quaggiù,

spingendolo magari a portare qualche modificazione al corso del mondo inferiore. Così, debitamente considerate tutte

queste cose, reverente mente assassinarono il grande re immortale, il quale, benché immune dalla malattia e dalla

decadenza della tarda età, era tuttavia suscettibile d'essere spento con la violenza anche se poi la durezza del suo cranio

spezzò in frantumi l'ascia con cui tentarono di ucciderlo.

Così una deputazione dei migliori e dei più coraggiosi della tribù si recò dal gran mago riferendogli tali

riflessioni, reverentemente sollecitando che consentisse a essere radiato dal mondo e l'immortale fu d'accordo con loro

che era meglio per lui morire, del mondo da lungo tempo essendo stanco, avendone imparato tutto quello che poteva

insegnargli, e avendo soprattutto imparato a disperare di mai rendere la razza dei pelli rosse molto migliore di quanto

fosse allora. Così lieta mente accondiscese, e ingiunse loro di ucciderlo, se ce la facevano; e prima provarono con l'ascia

di pietra che volò in frantumi sulla sua cervice, poi gli scoccarono frecce che non penetrarono la durezza della pelle, e in

fine gli tapparono naso e bocca (e questa continuò a largire sapienza fino all'ultimo) con la creta, mettendolo poi a

cuocere al sole; e così finalmente la vita gli uscì ardendo dal petto, lacerando a pezzi il suo corpo ed egli morì.

[Rendere questa leggenda grottesca ed esprimere la stanchezza della tribù per il controllo intollerabile che

l'immortale esercitava su di essa; sempre egli riesuma i precetti tratti dalla propria esistenza, non consentendo mai a

nulla di nuovo e così impedendo ogni progresso; le abitudini gli s'induriscono dentro ed egli si attribuisce ogni

saggezza, impedendo a chiunque di esercitare il potere per legittima successione; egli parla senza posa, indugiando sul

passato, per cui nessuno più lo sopporta. Descrivere le sue abitudini severe ed ascetiche, la sua rigorosa calma].

Ma prima di morire il gran mago impartì ad un membro scelto dalla tribù, il più saggio dopo di lui, il segreto

d'una bevanda possente e deliziosa; bevendola con costanza, e insieme astenendosi dal lusso e dalla passione, si era

mantenuto così a lungo in vita, ed essa indubbiamente l'avrebbe fatto vivere in perpetuo. La bevanda era composta da

parecchi ingredienti tutti ricordati e fedelmente trasmessi dalla tradizione, salvo uno, che o perché non si trovava da

nessuna parte o per altro motivo, era stato dimenticato sicché la bevanda ave va cessato di conferire come in antico la

vita immortale: si diceva che fosse un bellissimo fiore purpureo. [Forse il Diavolo gli insegnò a preparare la bevanda,

oppure il Grande Spirito: è incerto quale dei due]. Eppure era una bevanda eccellente e salutare e curativa per ogni

specie di malattia; e gl'Indiani la possedevano al tempo dell'insediamento inglese e in uno di quei convegni

stregoneschi, nella foresta, quando l'Uomo Nero era solito incontrare i suoi figli, i rossi ed i bianchi, facendo baldoria

con loro, un grande stregone indiano in segnò il segreto al nonno di Settimio, stregone a sua volta; lui, di rimando,

insegnò agl'Indiani a mescolarvi il rum, pensando che potesse essere proprio questo l'ingrediente mancante e che

aggiungendolo poteva conferire vita perpetua a sè ed a tutti i suoi amici indiani; fra i quali aveva scelto moglie.

«Ma il tuo bisnonno, sai, non ebbe modo di saggiarne le virtù, poiché fu impiccato per stregoneria, e quanto

agl'Indiani, probabilmente essi mescolarono alla loro bevanda troppa acquavite, sicché essa li bruciò, consumandoli e ne.26

morirono tutti; ma mia madre e sua madre, che insegnò a me la preparazione, pensarono fosse peccaminoso tentar di

vivere più di quanto conceda il divino beneplacito, e si lasciarono morire.

E benché la bevanda sia buona, Settimio, e allettante, talvolta sento che divento vecchia come gli altri e che

potrei morire nel prossimo mezzo secolo, sicché forse il rum non era precisamente quel che ci voleva per completare la

ricetta. Ma buona certamente è! Bevine ancora un goccio, caro».

«Non per adesso, grazie, zia Keziah» disse Settimio, gravemente; «ma mi vuoi dire quali sono gl'ingredienti e

come si prepara?».

«Sì, ragazzo mio, e te li trascriverai» disse la vecchia; «è infatti un'ottima bevanda anche se magari non ti fa

vivere in perpetuo. A volte penso che mi piacerebbe altrettanto andare in cielo che restare quaggiù».

Così, facendo impugnare la penna a Settimio, gli dettò una lista di piante, di erbe e di prodotti della foresta, ed

egli rimase stupito a trovare che collimava quasi incredibilmente con la ricetta contenuta nel vecchio manoscritto, nella

misura in cui era riuscito a decifrarlo e da quel che gliene aveva spiegato il dottore. C'erano alcune varianti, ma anche in

tali casi esisteva una stretta analogia, poiché molte piante indigene americane era no sostituite alle loro consimili

d'Europa. Poi c'era un'altra differenza nelle modalità di preparazione, la ricetta della zia Keziah essendo un infuso

mentre l'antico manoscritto descriveva un processo di distillazione. Questa somiglianza produsse un effetto assai forte

sulla fantasia di Settimio. Ecco, nel primo caso, una bevanda suggerita ad un popolo primitivo da una facoltà assai

simile all'istinto con cui i bruti riconoscono i medicamenti adatti ai loro bisogni: esso mescolava le erbe odorose per

motivi più sapienti di quanto fosse in grado di capire, trasformandole in salutare pozione; ed ecco, a riscontro, una

bevanda combinata con la suprema abilità d'un filosofo altamente civile che indagava tutto il campo della scienza per

giungere allo scopo prefisso; e queste due bevande si rivelavano, quanto all'essenziale, identiche.

«O zia Keziah» egli disse, con una nostalgia profonda: «sei sicura di non poter rammentare quel singolo

ingrediente?».

«No, non ce la faccio, Settimio» ella disse. «Ho provato varie soluzioni, cavolo, assenzio e mille altre cose

perché è davvero un peccato che il massimo beneficio vada perduto per così poco. Ma l'unico effetto fu di rovinare il

buon sapore della bevanda e di avvelenarmi due o tre volte, tanto che mi coprii di pustole e una volta perdetti l'uso del

braccio sinistro e mi prese una vertigine alla testa e uno spasmo reumatico al ginocchio, con durezza d'orecchio, vista

annebbiata e parletico; tutte cose provocate, ne sono certa, dall'aver aggiunto a questa santa bevanda qualcosa di diverso

dal buon rum americano. Tienti a quello, Settimio, ragazzo mio».

Così dicendo, zia Keziah prese un altro sorso dell'amato liquore, dopo aver vanamente invitato Settimio ad

imitarla; poi, accesa la sua vecchia pipa di coccio, sedette nell'angolo del camino meditando, sognando, brontolando pie

preghiere e giaculatorie e di tanto in tanto sbirciando su per la vasta cappa: e forse pensava quale delizia doveva essere,

nei vecchi tempi, volarsene su per quella cappa, facendo un'escursione a mezzanotte nella foresta dove s'incontravano

l'Uomo Nero e i puritani, diaconi e gentildonne, e quei feroci Indiani, suoi antecessori; e il fondo della selvaggia foresta

era così deliziosamente torvo, così diverso dalla normalità nella qua le ora si sprecava la sua vita. Perché l'eredità

selvaggia della donna, mischiata com'era ad altre arcane e religiose porzioni della sua complessione, la rigettava tal

volta verso una vita barbarica e istintiva, e in Settimio, se anche più diluita e modificata da ulteriori filtri, c'era la stessa

tendenza.

Settimio sfuggì alla vecchia e fu lieto di respirare nuovamente l'aria libera; l'avevano snervato le leggende ed il

carattere selvaggio, potente a causa dell'affinità che li univa; forse, inoltre, la sua mente era stata sconcertata un poco

dalla pozione del beveraggio diabolico che ella l'aveva costretto a sorbire. In ogni modo era felice di fuggire verso la

sua vetta, la cui aria indubbiamente aveva contribuito a mantenerlo in salute, attraverso tutta la trafila di pensieri

morbosi e di studi alienanti.

Qui egli trovò Rose Garfield e Sibyl Dacy, indotte a uscir di casa da quella piacevole serata estiva. Avevano

formato un'amicizia o almeno un rapporto; non era concepibile una coppia di persone più dissimili, l'una così spontanea

e sana, così adatta a vivere nel mondo, l'altra un essere malaticcio e pallido. Così camminavano a braccetto o con un

braccio stretto alla vita dell'altra, come amano fare le ragazze. Accolsero il giovane con modi assai diversi, e presero a

camminare su e giù insieme, guardando arrivare il tramonto e parlando di cose e della terra e delle nuvole.

«Da quando non si hanno più notizie di Robert Hagburn?» domandò Settimio, il quale, occupato dalle sue

ricerche, era rimasto indietro nel seguire le notizie del la guerra-vergogna a lui!

«Ce ne giunse notizia, due giorni fa» disse Rose imporporandosi, «egli è per la strada con quel che re sta del

comando del generale Arnold, e fra poco sarà qui».

«Bravo figliolo, Robert» disse Settimio, incurante mente.

«E non so, essendo la vita così breve, quale uso migliore se ne possa fare, se non metterla a repentaglio

com'egli fa».

«Io non la penso così» disse Rose Garfield, compostamente.

«Quale benedizione per i mortali» disse Sibyl Darcy, «quale misericordia della Provvidenza, che la vita sia

resa così malcerta, che la morte sia fra le possibilità dell'esistenza, che ci circondino questi orrendi misteri nei quali noi

potremmo svanire! Senza di ciò, come si potrebbe essere eroici? Ci inoltreremmo tra luoghi comuni, senza mai sognare

cose alte, senza correre mai un rischio. Per parte mia penso che l'uomo sia più favo rito degli angeli, reso capace di

maggiore eroismo, di più alta virtù, di più sublime spiritualità rispetto a loro, proprio perché ci attornia un tal mistero di

dolore e terrore; essi viceversa, avendo piena contezza della luce di Dio, vedendo la sua bontà ed i suoi fini più perfetta

mente di noi, non possono assurgere al coraggio che il debole uomo o la debole donna hanno occasione di mo strare e.27

talvolta mostrano davvero. Dio diede all'uomo il mondo, ma a lasciarvelo solo, finisce col trasformarsi in una zolla di

terra; per rimediarvi, Dio diede all'uomo un sepolcro, che tutto redime sembrando tutto distruggere, facendo di lui alla

fine uno spirito immortale».

«Sibyl cara, sei ispirata» disse Rose fissandola in volto.

«Penso che attribuiate un eccessivo potere al sepolcro» disse Settimio, involontariamente fermandosi, lui solo,

accanto al tumulo, il cui contenuto egli conosceva così bene. «La tomba mi sembra una turpe trappola posta sul nostro

cammino, la quale riesce a coglierci, quasi tutti o tutti, facendoci cadere dentro alla prima occasione, talché tutta la vita

umana è uno scherzo ed una farsa, a causa della incresciosa morte; infatti essa non ci lascia portare a termine niente,

potremmo esse re in grado di salvare la patria e tuttavia saremmo ugual mente votati alla morte. Perciò credendo io

nonostante tutto nella sapienza e benignità della Provvidenza, sono persuaso che morire sia un errore, di cui a poco a

poco verremo a capo. Io affermo che la tomba non ha scopo». «Continuo a sostenere ciò che ho detto», disse Sibyl

Dacy; «e inoltre, si può fare un uso diverso di una tomba, come ho più volte osservato nei vecchi cimiteri inglesi, dove

il muschio tinge di verde e sbalza le lettere delle lapidi; le tombe sono inoltre eccellenti aiuole».

Nessuno era mai in grado di dire quando la strana fanciulla stesse per proferire alcunché di comico e quando

viceversa alcunché di melanconico e i due ascolta tori di Sibyl non seppero che pensare di questo discorso. Né Settimio

potè vincere un certo stupore vedendola chinarsi mentre parlava della tomba come di una aiuola, sul tumulo per

esaminarne i fiori d'ogni specie, i quali, in realtà parevano comprovare le sue parole crescendovi in singolare

profusione; sicché, fossero mai fioriti tutti insieme, quel punto avrebbe avuto l'aspetto di un mazzolino tutto particolare,

sia che la terra vi fosse più ricca di bellezza, sia che qualche giardiniere avesse largheggiato nel seminarla. Questo,

Settimio non poteva spiegarselo, poiché, sebbene quel fianco di collina producesse certi fiori - l'astero, la mazza d'oro,

la violetta e altre specie delle più semplici e comuni, - pure qui pareva che un tappeto di brillanti colori fosse stato

gettato a coprire la terra. «È molto strano» egli disse.

«Sì» disse Sibyl Dacy, «c'è una qualche strana ricchezza in questo piccolo tratto di terra».

«Di dove possono esser venuti questi semi? Questo è il maggior miracolo» disse Rose. «Potreste, credo,

insegnarmi la botanica senza doverci spostare».

«Conoscete questa pianta?» domandò Sibyl a Settimio, additandone una non ancora in fiore, ma di fo glia

strana, che si lanciava in alto dal centro della tomba, dove si poteva presumere fosse il petto del dormente sotterraneo.

«Mi sembra non ve ne sia nessun'altra simile».

Settimio si chinò ad esaminarla e riconobbe che non somigliava a nulla che egli avesse mai visto nella specie

dei fiori; con la sua foglia di cupo verde traversata da vene purpuree, aveva un certo aspetto problematico come hanno

certe piante che fanno pensare al veleno e che non si vorrebbe toccare o fiutare da vicino senza prima informarsi se vi

sia una sicura garanzia della loro innocuità. Che possedesse una qualche sua ricchezza, ferale o benefica, non c'era

dubbio.

«A me sembra velenosa», disse Rose Garfield con un brivido, poiché era così naturale da detestare ogni veleno

e in generale ogni cosa che avesse un segno troppo particolare e non amava alcuna stranezza. «Pure, non mi stupirei se

prima o poi facesse un fiore bellissimo. Tuttavia, dovessi seguire un semplice impulso, la sbarberei e butterei via».

«Deve proprio fare come dice?» domandò Sibyl a Settimio.

«Noi per tutto l'oro del mondo», egli disse in fretta. «Più d'ogni cosa, voglio vedere che cosa nasce da questa

pianta».

«Come preferite» disse Sibyl. «Intanto, se vorrete sedere qui ed ascoltarmi, vi racconterò una storia che per

puro caso mi traversa la mente in questo momento - non so perché. È una leggenda di un vecchio castello che conosco

bene fin dall'infanzia, e che sorge in una contea dell'Inghilterra settentrionale, dove sono nata. Volete ascoltarla,

Rose?». «Non c'è cosa che io desideri di più», ella rispose. «Amo tutte le storie, di castelli come di capanne, della

vecchia patria, anche se ormai non possiamo più chiamarla così».

Sibyl guardò Settimio, quasi ad accertarsi che anche lui volesse udire la sua storia, ed egli disse: «Sì, ascolterò

volentieri la leggenda, sempre che sia genuina, adottata dalla credenza popolare e discesa negli angoli dei camini

insieme al fumo e alla fuliggine, soffusa di umanità a forza di passare da una mente all'altra. Solo così quelle storie

diventano vere, in un certo senso, e senza dubbio in questo senso le possiamo dire completamente vere, poiché il loro

nucleo, l'invenzione sembra nato dal cuore dell'uomo in un modo che nessuna malizia premeditata potrà imitare.

Nessuno può creare una tra dizione; ci vogliono secoli per farla».

«Io non so se questa leggenda abbia i caratteri desiderati» disse Sibyl, «ma ha vissuto assai più di un secolo;

eccovela».

* * *

«Sulla soglia di una delle porte di Smithell's Hall un'orma di sangue è stampata sul gradino, e rosseggia come

se il piede insanguinato l'avesse giusto allora calcata, ed è noto che una certa notte dell'anno e ad una cert'ora della

notte, se vai a guardare quel gradino vedi l'orma bagnata di sangue fresco. Taluno ha osato affermare che questa

apparenza di sangue sia semplice rugiada; ma può la rugiada arrossare un fazzoletto di batista? Vi tingerà di cremisi i

polpastrelli quando la toccherete? Eppure questo farà per certo l'ombra sanguinosa allo scadere della notte e al rintocco

dell'ora prefissata, proprio come trecent'anni fa. Bene, ma come ha fatto a imprimersi? Non so di preciso in quale epoca,

ma tanto tempo fa, quando la luce cominciò a irradiare quello che fu detto il tenebroso Medioevo. Ci fu allora un.28

signore di Smithell's Hall che si applicò profondamente al sapere ed alla scienza sotto la guida dell'uomo più saggio

dell'epoca, un uomo così saggio da essere stimato un mago; cosa perfino plausibile se l'esser mago consiste nel

comandare ai poteri occulti della natura la cui esistenza gli altri nemmeno sospettano, e la cui dominazione permette di

compiere prodigi che paiono meravigliosi quanto la risurrezione dei morti. Inutile riferirvi le strane storie sopravissute a

tutt'oggi intorno al vecchio maniero; si crede che il suo signore, grazie alla antica scienza da lui posseduta, tuttora vi

risieda in qualche modo, dominando il luogo. In una delle stanze tuttora rimane il suo antico tavolino e la sedia e

qualche rozzo vecchio strumento e macchina rio ed un libro, il tutto tenuto a posto come se egli potesse tornare a

completare un qualche esperimento. Im porta soprattutto dire che una delle cose principali cui il vecchio signore s'era

dedicato era la scoperta dei mezzi per prolungare la sua vita, sì da farla durare indefinitamente se non all'infinito e tale

era la sua scienza che si credette avesse attinto quel fine magnifico e terribile.

«Come vi potete immaginare, l'uomo di scienza era ben felice di aver ottenuto tanto, sia per l'orgoglio che

gliene veniva, sia perché era delizioso avere dinanzi a sè la prospettiva d'un tempo infinito, da poter spende re

aggiungendo sempre nuove nozioni alla sua scienza, con ciò beneficando il mondo; infatti il massimo osta colo al

miglioramento del mondo e all'aumento delle conoscenze è che l'umanità non può procedervi in modo lineare,

dovendoci essere sempre nuovi inizi e ci vuole metà se non tutta intera la vita d'un uomo per arrivare al punto dove il

predecessore l'ha lasciata. E così questo nobile personaggio, quest'uomo dal nobile scopo, spese molti anni a indagare il

formidabile segreto: e alla fine, così si dice, l'impresa gli riuscì. Ma a quali condizioni?

«Bene, si dice che fossero condizioni tremende e orribili, tanto che il saggio si domandò, nonostante la

grandezza del fine, se valesse la pena di accettarle e trarne profitto.

«Vedete, il fine del signore di Smithell's Hall era di sottrarre una vita al corso della Natura e la Natura non

voleva essere defraudata, sicché, a dispetto del potere che su di essa esercitava lo scienziato, non consenti che egli

sfuggisse alla necessità di morire a tempo debito, salvo a condizione di sacrificare per la propria un'altra vita; e questo

doveva avvenire tutti i trent'anni che volesse sopravvivere, trent'anni essendo l'equivalente di una generazione; se

comunque in quel tratto di tempo il signore riusciva a cagionare la morte d'un altro essere umano, con ciò soddisfaceva

alla condizione e poteva continuare a vivere. Una delle varianti della leggenda dice che fra gl'ingredienti fatti bollire

dallo scienziato fosse il sangue tratto dal cuore d'un fanciullo o d'una fanciulla puri. Ma questa è un'idea troppo rozza e

la rifiuto, anzi stimo che si debba prendere in un senso simbolico, e significhi che colui il quale desideri attribuirsi una

parte di vita maggiore di quella a lui desti nata, deve sacrificare al proprio egoismo l'interesse più caro d'un'altra

persona, che abbia un suo buon diritto alla vita e che potrebbe esservi utile quanto lui.

«Ora questo signore era un uomo d'indole buona e aveva tralignato soprattutto a causa del suo serio desiderio

di far qualcosa per la povera, malvagia, affannosa, sanguinaria, inquieta razza umana cui apparteneva. Si domandò se

avrebbe avuto il diritto di togliere la vita a una creatura senza il consenso della medesima al fine di prolungare la

propria; dopo aver molto dibattuto il problema egli giunse alla conclusione che non ne aveva il diritto, salvo fosse stata

una vita prossima alla sua e sulla quale avesse potestà. Si guardò d'attorno; era un uomo solitario ed astratto, che gli

studi rescindeva no dagli affetti umani, affezionato ad un'unica creatura, una bellissima parente, un'orfana che suo padre

aveva allevata lasciandogliene la cura morendo. Il signore nutriva molto affetto e tenerezza per questa bella giovane,

almeno, nella misura in cui lo consentiva la natura astratta della sua indole e delle sue occupazioni, ma non già quel che

si suole chiamare amore, o almeno, egli non se lo confessava. Però scrutando il proprio cuore vide che ella, se altri mai,

era la persona che il sacrificio esigeva: ne avrebbe potuto uccidere venti altre senza effetto, ma bastava togliere la vita a

lei, per infondere forza e valore all'incantesimo.

«Amici miei, ho meditato parecchie volte su questo aspetto sgradevole della leggenda e non ho voglia di

accettarla alla lettera e pertanto ne interpreto così il significato spirituale (tutto, ben sapete, ha un significato spirituale

rispetto al quale la lettera è ciò che per l'anima è il corpo): alla indagine scientifica profonda dobbiamo sacrificare gran

parte della gioia di vivere; nessuno può essere grande e compiere grandi gesta se non consegna alla morte mo lto di

quanto lietamente godrebbe, nella misura in cui ne godrebbe. In questo senso interpreto la storia. Ma la vecchia

leggenda, nella sua materialità, pretende che questo signore folle, d'altissimi sensi, eroico, omicida si persuadesse di

dover uccidere questa povera fanciulla amante e amata.

«Non desidero indugiare su questo tema orrendo e riferirvi come egli lo dibattesse fra sè e sè, e come, quanto

più ne trattava, tanto più ragionevole e assolutamente necessario apparisse il misfatto: un vero dovere. C'era il gran bene

da fare all'umanità, e l'ostacolava solamente una piccola vita delicata, così fragile che a spegnerla sarebbe bastato, in

qualsiasi momento, il rude soffio che il mero scorrere della vita produce o un minimo incidente; inoltre ella era così

buona e pura da riuscire del tutto inadatta al mondo e incapace di goderne le gioie; le si chiedeva, alla fin fine, soltanto

di lasciarsi trasportare in un luogo dove sarebbe stata felice e avrebbe trovato una compagnia degna di lei, qua le non

era certamente lui, suo unico attuale compagno. Insomma, egli decise di versare il sangue dolce e fragrante della

mammola che tanto l'amava.

«Bene, sorvoliamo il più in fretta possibile su questa parte della storia. Egli trucidò la pura giovinetta, la portò

nel bosco accanto a casa, un bosco antico che vi sorge tuttora con le sue querce magnifiche e quivi le piantò la daga nel

petto, dopo una conversazione te nerissima e amorosa, in cui aveva tentato di spiegarle la questione affettuosamente,

facendole capire come fosse in procinto di trucidarla proprio perché l'amava più d'ogni altra cosa al mondo e che

avrebbe preferito morire lui stesso se ciò fosse servito allo scopo. Invero si dice che le offrisse l'alternativa di ucciderlo

assumendosi lei il fardello della vita perpetua nonché gli studi e le ricerche con le quali egli intendeva beneficare

l'umanità. Ma, si dice, questa fanciulla nobile, pura e amante lo guardò in viso e tristemente sorrise, quindi, strappatogli.29

lo stiletto, se lo conficcò nel cuore. Non so dire se ciò sia vero, o se aspettò d'essere da lui uccisa; questo so per certo,

che nelle medesime circostanze avrei risparmiato al mio amato o amico il dolore di uccidermi. Lì giacque morta,

comunque, ed egli la seppellì nel bosco, tornandosene a casa; e accadde che avendo egli posato il piede destro nel

sangue di lei ed essendone la scarpa intrisa, egli lasciò per qualche miracoloso desti no una traccia lungo il sentiero

boschereccio e fin dentro casa e sui gradini di pietra della soglia e su fino in camera sua; e la videro i domestici

l'indomani e ne stupirono e avvertirono l'assenza della bella giovinetta e gettarono sguardi di sbieco al piede destro del

loro signore, tingendosi, quanti erano, d'un mortale pallore.

«La leggenda prosegue narrando che Sir Forrester fu colto dall'orrore di ciò che aveva perpetrato, né potè più

sopportare il laboratorio dove aveva faticato così a lungo, disgustato mortalmente dell'oggetto per seguito,

profondamente rattristato, talché fuggì dal vecchio maniero e ne rimase lontano per parecchi giorni. Ma nel frattempo,

mentre era lontano, la macchia di un'orma insanguinata era rimasta sul gradino di pietra. La traccia era rimasta lungo

tutto il sentiero boschereccio, attraverso il prato, fino al portale gotico; ma la pioggia, la perpetua pioggia inglese, era

sopravvenuta il giorno seguente dilavando ogni cosa. La traccia era rimasta attraverso l'ampio salone e su per le scale,

fin nello studio del signore e qui era rimasta sulle stuoie stese dai servi, i quali avevano badato a raccoglierle e a gettarle

via spargendo per terra dei cannicci freschi. Così soltanto sulla soglia rimase il segno.

«Ma, dice la leggenda, dovunque andasse Sir Forrester, vagabondando per il mondo, lasciava dietro di sé una

traccia sanguinosa. Era un fenomeno mirabile e assai sgradito. Quando entrava in una chiesa, ne scorgevi la traccia per

l'ampia navata e poi una piccola pozzanghera rossa dove si andava a sedere o a inginocchiare. Una volta andò a corte e,

stendendosi la traccia fino al trono stesso, il re lo guardò con sdegno ed egli non tornò mai più. Nessuno sapeva come

ciò avvenisse; il piede non lo si vedeva sanguinare, ma egli lasciava quella traccia sanguinosa dietro di sé dovunque

andasse; era un uomo colpito dall'orrore, che continuamente si voltava a guardare la traccia per poi affrettarsi come a

sfuggire le proprie orme; ma altrettanto veloci queste lo seguivano.

«Nel salone dove si celebrava una festa, ecco: la traccia sanguinosa portava alla sua sedia. I dotti che egli

consultò intorno a codesta strana tribolazione conferivano l'un coll'altro e con lui, che stava alla pari con qualunque di

loro, e sbuffavano dicendo: «In ciò non c'è nulla di miracoloso, è soltanto un'infermità naturale cui si può mettere

termine facilmente, ma purtroppo arrestare un tal flusso vorrebbe dire danneggiare altre par ti del corpo». Sir Forrester

ogni volta diceva: «Fate la cessare, o dotti confratelli, se potete; non importa quali siano le conseguenze».

«Fecero del loro meglio, ma senza esito, sicché egli continuò a lasciare la sua traccia sanguinosa nei loro

appartamenti universitari, come in ogni altro luogo, per la strada e per le selve; ma soprattutto sui campi di battaglia

rifulgeva più fresco quel rosso. Infine, trovando sgradevole l'attenzione che si attirava, lo sventurato signore ritenne

miglior partito tornare al suo castello, dove, dimorando tra vecchi servitori fedeli sempre vissuti con la sua famiglia,

poteva mettere a tacere la faccenda meglio che altrove, senza essere continuamente guardato o senza vedere, volgendo

attorno gli occhi, mani alzate per il terrore di scorgere dietro di lui una striscia di sangue. Così se ne venne a casa e

ravvisò la traccia di sangue sulla soglia e dolente entrò nel salone, salì le scale, e un vecchio servo gli aprì la porta della

sua camera, e una mezza dozzina d'altri lo seguì; lo fissavano rabbrividendo, additandoselo con dita tremule,

scambiandosi occhiate atterrite con pallido volto, e precipitandosi, non appena egli fu passato, a procurarsi cannicci

freschi ed a ripulire le scale. Il giorno seguente Sir Forrester si recò nel bosco e presso un'annosa quercia trovò una

tomba e accanto ad essa un bellissimo fiore cremisino, il più sontuoso e bello, di certo, che mai fosse sbocciato, così

ricco appariva, così colmo di succhi potenti. Quel fiore egli colse e, sentendosi pervaso dallo spirito delle sue ricerche

scientifiche, scoprì che il fiore, prodotto da una vita umana, era essenziale alla perfezione della sua ricetta d'immortalità;

così si preparò la bevanda e diventò immo rtale nell'infelicità e nel tormento, sempre continuando a studiare e

diventando sempre più saggio e più infelice di epoca in epoca. A poco a poco scomparve dal vetusto castello, ma non

già per sopravvenuta morte; si dice infatti che di generazione in generazione una striscia sanguinosa diventa visibile

intorno alla casa e talvolta si rintraccia fin su nel le camere, così fresca che si ha la certezza del suo passaggio poco

prima; ed egli cresce in saggezza come in solitudine di era in era. Tale la leggenda dell'orma insanguinata, che io stesso

ho visto sulla soglia del castello. Quanto al fiore, la pianta ne crebbe per varii anni su dalla tomba; dopo un po', forse un

secolo fa, venne trapiantata nel giardino di Smithell's Hall, e conservata con somma cura, e lo è tuttora. Poiché la

famiglia attribuisce una specie di sacralità o di maledizione al fiore, non la si può convincere a cederne i semi o a

lasciare che venga propagato altrove, non lo farebbe neanche se mandasse a chiederlo il re. Si dice inoltre che esista

ancora nella famiglia una ricetta di immortalità del vecchio signore, e che molti suoi discendenti collaterali, abbiano

provato a prepararla, istillandovi il fiore al fine di conferire la vita perpetua, ma senza esito, poiché i semi del fiore

vanno piantati in un sepolcro fresco di un morto di morte cruenta, se si vuole che sia efficace».

* * *

Così finì la leggenda di Sibyl; Settimio rimase colpito da una certa analogia con la leggenda indiana di zia

Keziah, entrambe concernevano infatti un fiore cresciuto da una tomba, e rimase impressionato dalla coincidenza

formidabile: alla sparizione dell'antenato inglese corrispondeva la comparsa, alla stessa epoca, del primo antenato della

sua famiglia, l'uomo dagli attributi stregoneschi, dall'orma insanguinata, la cui sparizione subitanea era diventata un

mito, poiché si credeva che il Diavolo se lo fosse portato via. Eppure la folle tradizione si fece più folle nella fantasia

stranita e morbosa di Sibyl, dandogli la sensazione del carattere fantastico della sua attuale ricerca e l'impressione che

impegnandocisi s'era sviato in una regione da tempo abbandonata alla superstizione, dove le ombre dei sogni.30

dimenticati si perdono dopo che gli uomini se ne sono disfatti, la regione dei culti tramontati, dove finì il grande Pan

allorché morì al mondo esteriore, limbo in cui si smarriscono i vivi allorché s'illudono d'essere al colmo

dell'avvedutezza e della sapienza e dal quale è ben raro che essi ritrovino la strada per tornare al mondo reale. Visioni di

ricchezza, di fama, di filantropia, tutte vi trovano posto e vi errano senza mai scontrarsi.

Quando Settimio considerava la questione nel suo stato d'animo attuale, gli pareva di ritrovarsi appunto in un

limbo del genere e che la leggenda di Sibyl, così folle all'apparenza, forse si attagliava alla sua vita presente; Sibyl

stessa aveva infatti l'aria di un'illusione come anche, stranamente, zia Keziah, che egli aveva conosciuto per tutta la vita,

con i suoi tratti domestici e strambi; il truce dottore, col suo cognac e la sua pipa gli faceva lo stesso effetto e tutti

costoro facevano sembrare la sua casetta così familiare un edificio irreale, della sostanza dei castelli in aria, e la terra

che calcava qualcosa d'inconsistente; la tomba poi che egli sapeva contenere i resti corrotti d'un bellissimo giovane era

nulla più d'un turgore fittizio, illusione dei suoi occhi. Irreale ogni cosa, tutto illusorio! Era un'illusione anche Rose

Garfield, con la sua quotidiana avvenenza ed il suo brio quotidiano ed il suo quotidiano coraggio? In breve, egli

attraversava uno di quei momenti che tutti sentono (io almeno ne posso testimoniare) allorché lo spettacolo della vita

reale oscilla, stride, crolla e pare sul punto di essere infranto e disperso, come l'immagine riflessa in un liscio stagno

allorché ne turbiamo lo specchio placido gettandovi un sasso; e benché la scena subito si ricomponga e appaia reale

come prima, un dubbio ossessivo aleggia ormai, per tutto il tempo che viviamo, domandando: «Sarà davvero stile? Ne

sono sicuro? Sono certo di non sognare? Ecco, si rimette a tremare, è per dissolversi».

* * *

Applicandosi con somma diligenza al suo tentativo di decrittazione e interpretazione del manoscritto

misterioso, adoprandosi con tutta la sua mente ed il suo vi gore, Settimio non mancò di raggiungere un certo quale

lusinghiero successo.

Molta parte del manoscritto, s'è detto, era in scrittura inglese arcaica, benché i caratteri fossero così rozzi e

informi che ci voleva parecchia fatica a risolverli in lettere alfabetiche o a credere che fossero altro che macchie e

scarabocchi arbitrari e miserandi tracciati sulla carta gialla; senza significato, vaghi, come i germi nebulosi e maldefiniti

d'un pensiero che si profilano nel nostro cervello prima di rivestirsi di parole. Comunque, a mano a mano che egli si

concentrava, le parole pigliavano una forma più distinta, come nebulose al telescopio, ora erano inglesi e ora latine,

stranamente rappezzate, insieme, quasi l'autore fosse tanto adusato a adoprare la lingua in cui la scienza del tempo

veniva di solito espressa, da mescolarla inconsciamente col volgare o da usare l'una o l'altro a caso. C'era anche un po'

di greco. Poi spesso interveniva il cifrario, al cui studio Settimio si era dedicato per qualche tempo con l'aiuto dei libri

presi in prestito alla biblioteca universitaria, non senza esito. Infatti, osservandolo da presso, gli parve che non fosse

stata intenzione dello scrittore celare davvero ad uno studioso serio il senso di ciò che aveva scritto, ma piuttosto

chiuderlo in una specie di forziere la cui chiave fossero la diligenza e l'intuito; il ricercatore acquistava il diritto a

possederne poi il tesoro se greto in grazia dell'applicazione intellettuale necessaria a sceverarne il significato.

Pur fra un cumulo di cose nebulose egli scoprì che il documento constava soprattutto, contrariamente a ciò che

egli aveva immaginato, di certe regole di vita. L'avrebbe potuto scambiare, ad un esame casuale, per un trattato di

saggezza pratica dedicato da qualche uomo di mente profonda e sagace ad un giovane per il quale sentisse un interesse,

tanto sicura e buona era la sua dottrina di vita, tanto eccellenti le massime, tanto sapiente la trattazione delle varie

materie via via affrontate. Somigliava una sinossi della sapiente regola di vita di un filosofo antico. Ma considerando

più a fondo e senza artificio la questione, Settimio non era poi tanto soddisfatto. È vero: tutto quanto vi si diceva non

era affatto in disaccordo con le leggi della morale sociale, non era mai privo di saggezza, ma anzi appariva accorto e

sagace né sembrava violare le norme dell'umanità, eppure qualcosa era stato tralasciato, qualcosa risulta va

insoddisfacente. Che cosa? Un freddo incantò ne emanava, una magia non di fuoco ma di gelo e Settimio diventò un

esempio, un riflesso, di quella potenza nella misura in cui a poco a poco cominciò a non accorgersene neanche più. Lo

scritto gli pareva opera di un uomo di somma saggezza ed esperienza di mondo, quale l'autore dell'Ecclesiaste; era

infatti pie no di verità, ma della verità che non migliora gli uomini, pur rendendoli forse più calmi, e sotto la quale i

germogli della gioia si raggricciano come le tenere foglie in una brinata. Che cosa c'era di sinistro nel documento, che

faceva svanire lo spirito giovanile di Settimio a mano a mano che leggeva? Quale mano di ghiaccio l'aveva scritto, da

raggelare ed estirpare il cuore del lettore? Settimio non si accorgeva di questa caratteristica, o almeno, dopo poco tempo

cessò d'accorgersene, poiché leggendo via via si sentiva pervaso da un senso di calma soddisfazione, quale non aveva

mai provato dianzi. La mente sembrava rischiararsi, la sensibilità acuirsi, la realtà delle cose crescere a segno che gli

pareva di poter toccare e maneggiare tutti i suoi pensieri, palpandone i contorni e la circonferenza, conoscendoli con

sicurezza, quasi fossero oggetti materiali. Non che tutto ciò si ritrovasse nel documento stesso, ma studiandolo a fondo e

ricreandone in certo senso a proprio beneficio il significato a partire da materiali illeggibili, coglieva la temperie della

mente del vecchio autore, dopo l'immenso periodo di tempo in cui quella disposizione d'animo era rimasta celata nel

manoscritto ammuffito e stantio. Egli ne era magnetizzato: un intelletto possente agiva potentemente su di lui, forse un

qualche incantesimo, un mistico ínflusso intrideva la carta stessa, me scolato all'inchiostro giallo, e ne emanava a furia

d'esse re come premuto e soffregato dal giovane, che vi si applicava con tutta la sua forza e con la massima intensità

mentale; così anche il fatto di maneggiare la carta, di curvarvisi sopra e di respirarvi sopra produceva il suo effetto.

Non è in nostro potere e nemmeno è fra i nostri desideri offrire la forma originale o lo spirito di una produzione

che è meglio resti perduta essendo l'espressione d'un intelletto umano originariamente assai dotato e capace di grandi.31

cose, ma completamente deviato, a causa della stessa sua sottigliezza: aveva infatti ceduto alle tentazioni della parte

inferiore della sua natura per aver convertito la sua spiritualità in una sagacia acutissima rivolta alle cose inferiori, al

punto che essa era del tutto scaduta ma in un modo tale che non sembrava scaduta per niente né a se stessa né

all'umanità, ma appariva anzi saggia e buona e conforme ai fini che può proporsi l'intelletto nell'ambito dell'esistenza e

dimostrava inoltre che la vita terrestre è buona e ingloba tutte le esigenze ed i possibili sviluppi della nostra natura.

Tutto ciò sarà bene dimenticarlo, è meglio che venga bruciato, meglio che non venga mai più rimeditato e tanto più

perché di aspetto così saggio e perfino lodevole. Ma dobbiamo preservarne certe regole di vita e di dietetica morale non

espresse direttamente nel documento, ma che, a misura che questo era assorbito dalla mente di Settimio, venivano come

precipitando dalla ricca soluzione, cristallizzandosi in diamanti. Era, egli scoprì, una dietetica morale, per così dire,

grazie alla cui osservanza avrebbe dovuto attingere l'immortalità terrestre, le cui prescrizioni materiali erano date dalla

ricetta che, con l'aiuto del dottor Porstoaken e della zia Keziah, ave va già abbastanza soddisfacentemente messo in

chiaro.

«Mantieni il tuo cuore al ritmo di settanta battiti al minuto, ogni eccesso rispetto a tale misura consuma la vita

troppo velocemente. Se la tua respirazione è troppo celere, considera che hai peccato contro l'ordine naturale e la

moderazione. Non bere vino o bevanda forte e osserva che questa norma acquista il suo massimo valore nel suo

significato simbolico.

«Indugia ogni giorno al sole e lascia che ti si posi sul cuore. Non correre, non saltare, ma cammina con passo

fermo e conta i passi che fai ogni giorno.

«Se mai senti un movimento nel cuore, subito sosta e analizzalo, fissa su di esso il tuo occhio mentale e

domandati il perché di una tale commozione. Non odia re uomo o donna; non essere adirato, salvo talvolta il sangue ti

paia un po' freddo e torpido; stronca tutti i sentimenti aspri che sono un veleno per te. Se nella ve glia o nel sonno hai

pensieri di contesa o di cosa sgradevole, procura quietamente con te stesso di scordarlo. Non avere amicizia con un

uomo imperfetto o di cattiva salute o di passione violenta, o comunque di carattere tale che ne turbi l'esistenza, sì da

esercitare un in flusso conturbante sulla tua. Non stringere la mano a nessuno, perché in tal modo, se vi è del male

nell'uomo, potrebbe trasmettersi a te.

«Non baciare donna le cui labbra siano troppo rosse e non guardarla se è troppo vezzosa. Non toccarne la mano

se i tuoi polpastrelli vibrano sia pur di poco al contatto con quelli di lei. In genere evita la donna, che può essere un

influsso conturbante. Se l'ami, tutto è finito, e saranno vane tutte le tue fatiche e pene.

«Compi qualche misura di bene e gentilezza nella vita quotidiana, poiché ne proviene un senso lievemente

piacevole che parrà riscaldarti e dilettarti con lodi rallegranti di te medesimo, e tutto ciò che riconduca a te stesso i tuoi

pensieri rafforza quel principio centrale grazie alla cui crescita otterrai una vita senza termine.

«Non agire in modo manifestamente malvagio, questo potrebbe sempre più influenzarti corrodendoti nel corso

degli anni. Non compiere un atto buono che sia stolto: potrebbe mutare i tuoi costumi sapienti.

«Non mangiare carni pimentate. Pollastri novelli, agnellini di latte, frutta, pane di quattro giorni, latte, burro

freschissimo, renderanno giovanile il tuo tabernacolo corporeo.

«Distogli gli occhi e partiti da gente malata, sciagurata e afflitta, discordante da ciò che dovrebbe essere la

norma, da persone di mente stravolta, di umor malinconico, di gioia stravagante, nonché dai fantolini che stanno

mettendo i denti, dai cadaveri.

«Se ti infastidiscono mendicanti, falli allontanare dai servitori, e tu ritirati dove non te ne giunga la voce.

«Fanciulli piangenti e malaticci e, come s'è detto, fantolini che mettano i denti evitali con cura. Bevi il fiato di

bambini sani quanto più spesso ti sia dato, è utile per il tuo fine; anche il fiato di prospere donzelle, se la cosa ti è

possibile senza commovimento della carne, bevilo come pozione mattutina e medicinale; altresì il fiato delle vacche

allorché tornano di sera dai campi.

«Se vedi la povertà umana o la sofferenza e ne resti turbato, procura con moderazione di sollevarle, poiché in

tal modo il tuo umore sarà cangiato in una piacevole lode di te medesimo.

«Abituati ad un certo qual sorriso perpetuo, poiché la sua tendenza influirà sul tuo essere dandogli

compostezza e ti eviterà un eccessivo logorio.

«Non scrutare se per avventura tu abbia un capello grigio, non osservare la fronte per vedere se ci scopri una

ruga, né l'angolo dell'occhio per scoprire se è grinzoso. Tali cose, se badi ad esse, vigoreggiano e crescono.

«Nulla desiderare con troppo fervore, neanche la vita; ma trattienila con forza, tranquillità, incrollabilmente,

perché, fintanto che tu sia risoluto a vivere, la Morte, con tutta la sua forza, non avrà potere su di te.

«Non camminare sotto rovine in bilico, né sotto case in costruzione, né arrampicarti in cima ad un albero di

nave, né accostarti all'orlo d'un precipizio, né metterti sulla linea del fulmine, né attraversare il fiume in piena, né

viaggiare per mare, né cavalcare un cavallo bizzarro, né farti prendere di mira con una freccia, o da una spada, e schiva

il caso di una morte violenta, che è odiosa e contraria a tutte le norme di saggezza.

«Recita le tue preghiere all'ora di coricarti, se ritieni che ciò sia per darti un più profondo sonno, ma non

lasciarti turbare se te ne dimentichi.

«Cambia ogni giorno la camicia, in tal modo rigetti la marcescenza del giorno dianzi e t'imbevi della

freschezza mattutina, odorando altresì rose e altri fiori fragranti e benefici, in modo da vivere grazie a ciò più a lungo. A

tal ne sono fatte le rose.

«Non leggere sommi poeti, poiché sconvolgono il cuore ed il cuore è un terreno che, troppo smosso, è proclive

a emanare vapori nocivi»..32

Tali erano alcuni dei precetti che Settimio raccolse e ridusse in forma definita da codesto mirabile documento

ed egli ne apprezzava la saggezza e chiaramente vedeva che dovevano essere essenziali all'efficacia della medicina cui

erano collegate. Di per se stesse già parevano capaci di prolungare l'esistenza per un tempo indefinito essendo concepite

con tanta sapienza e applicandosi così bene alle cause che quasi inevitabilmente consumano questa povera breve vita

dell'uomo anni e anni prima che la sconquassata costituzione ricevuta dai padri lo porti alla morte. Si considerava

pienamente compensato per la fatica durata e per le pene sofferte anche se l'unico risultato fosse stato l'apprendimento e

l'apprezzamento adeguato di codeste sagge norme; continuamente altre verità e, a quel che mi consta, più profonde e più

pratiche vennero sviluppandosi a mano a mano che egli leggeva il manoscritto; invero, per piccolo che paresse, Settimio

pensava che al confronto appariva scarso il più ponderoso in folio della biblioteca universitaria. Era come grondante,

stillava gocce preziose e fragranti ogni qualvolta egli lo cavava dallo scrittoio, emanava sapienza come le fiale di

profumo che, benché piccole all'apparenza, effondono un'aerea dovizia di fragranze per anni e anni di seguito,

spargendo le loro virtù a volumi in calcolabili di vapore invisibile restando tuttavia sempre di quantità uguale benché si

elargiscano senza risparmio; ogni qual volta egli voltava i fogli ingialliti, pezzi d'oro, diamanti cospicui, perle preziose

parevano caderne.

Ed ora seguì una sorpresa che, per quanto felice, gli riuscì quasi intollerabile, poiché gli fece battere il cuore

molto più in fretta di quanto prescrivessero le savie re gole del suo manoscritto. Salendo il colle, mentre l'estate si

andava estinguendo (era parecchio che non vi si recava) e costeggiando il tumulo fiorito come aveva già fatto tante

centinaia di volte, vi scorse nientemeno che un fiore nuovo, cresciuto mentre egli compulsava il manoscritto con tanta

solerzia, e ora fiorito con i petali dispiegati, sbocciato alla perfezione, coperto di rugiada mattutina, in attesa di offrirsi a

Settimio. Tremò vedendolo, era quasi impossibile a sopportare, così bello, superbo, elegante, misterioso e stupendo.

Simile ad una persona, ad una vita! Donde proveniva? Ne stava discosto, guardandolo con stupore, tremando al suo

cospetto, pensando alle leggende sentite da zia Keziah e da Sibyl Dacy; e adesso il fiore, simile a quello di cui

parlavano le folli tradizioni, era spuntato da un sepolcro, da un sepolcro dove egli aveva deposto un uomo da lui stesso

ucciso.

Il fiore era del più ricco carminio, illuminato da un centro aureo di bellezza perfetta e solenne. Secondo le

migliori descrizioni finora da me ottenute, era più simile ad una dalia di nessun altro dei fiori che conosco, eppure non

mi soddisfa crederlo di codesta specie, perché la dalia è senza caratteristiche spiccate sia di vivacità come di malignità,

e questo fiore trovato da Settimio in modo così strano, aveva l'una e l'altra. Se ho capito bene, aveva una fragranza che

alla dalia manca, e nel suo centro si celava qualcosa, un mistero, che nemmeno in pieno rigoglio si sviluppava così

completamente come la dalia priva di cuore ma non disonestamente reticente.

Ricordo d'aver visto in Inghilterra un fiore a Eaton Hall, nel Cheshire, in quei meravigliosi giardini, che forse

era come questo, ma il ricordo che ne serbo non è abbastanza nitido da permettermene una descrizione che vada di là

dall'osservazione che era cremisino con un bagliore aureo al centro, in parte nascosto. Aveva molti petali di grande

ricchezza.

Settimio, chinandosi avidamente sulla pianta, s'accorse che quel fiore non era l'unico che essa era destinata a

produrre quella stagione; anzi, ce ne sarebbero stati a dovizia, una messe lussureggiante come se la progenie purpurea di

quell'unica pianta dovesse ricoprire l'intero tumulo, come se il giovane morto avesse voluto erompere in una

risurrezione di tanti fiori purpurei! E nel suo cuore velato, inoltre, c'era come un mistero quasi di morte, benché esso

sembrasse avvolgere qualcosa di splendido e di aureo.

Un giorno dopo l'altro lo strano fiore cremisino fiorì, sempre più abbondantemente, finché parve ricoprire il

tumulo, che divenne un letto di tali ori, quasi avesse volto tutta la sua capacità a produrli; le altre piante, pensò Settimio,

parevano ritrarsene lasciandole il posto quasi indegne di competere con la ricchezza e la gloria e il valore della loro

regina. La fervida estate vi s'immergeva con ardore, la rugiada e la pioggia la servivano ed il suolo era ben opimo,

avendo un cuore umano contribuito con i propri succhi, un cuore la cui focosa gioventù era inzuppata nel suo sangue

talché la passione, gli amori insoddisfatti e le nostalgie, l'ambizione che non raggiunse il suo fine, i teneri sogni e

palpiti, le ire, le brame, gli odii, tutti concentrati dalla vita, vi germoglia vano e la sua mis teriosa natura con le sue

ombre e le sue venature, celava un significato particolare in ciascun fiore.

Le due donzelle, allorché salirono la volta seguente sul poggio, scorsero lo strano fiore, e Rose l'ammirò e ne

stupì, ma ne stette lontano, senza mostrarsene attirata, ma anzi indefinibilmente ne sembrava respinta, quasi lo credesse

un fiore velenoso; comunque non provava alcun desiderio di portarlo sul petto. Sibyl Dacy l'esaminò da vicino, ne toccò

le foglie, l'odorò, lo guardò con occhio di botanica e infine fece notare a Rose: «Certo cresce bene su questo terreno

nuovo, mi ha l'aria di una nuova vita umana».

«Che cos'è questo strano fiore?» domandò Rose.

«La Sanguinea sanguinissima» disse Sibyl.

Avvenne intorno a questo tempo che la povera zia Keziah, nonostante l'uso costante dell'amara sua mistura,

stesse assai male di salute. Era d'uno sgradevole colore giallo, aveva gli occhi iniettati di sangue, si lamentava

atrocemente di dolori interni. Nel muoversi era scossa da un sobbalzo reumatico e la si udiva borbottare che avrebbe

voluto avere un manico di scopa per volarvi sopra, e si fasciava la testa con una tovaglia o con quel che sembrava una

tovaglia, standosene seduta in cucina accanto al fuoco perfino nei giorni caldi, tutta curva, china come se volesse

assorbirne la vampa nel suo povero vecchio cuore o stomaco intirizzito, con un rantolo dispettoso e risentito a ogni

respiro, come lottando con le sue infermità; e continuamente fumava la pipa, come espellendo il soffio del suo male

visibilmente in quel tanfo; e talvolta borbottava una preghierina, ma sempre la malvagità, l'amarezza, l'acredine,.33

l'irritazione della sua disposizione naturale soverchiava la buona volontà acquisita che la costringeva a pregare; in

conclusione, sembrava che stesse imprecando con tutta la sua reumatica violenza. Per tutto il tempo una vecchia brocca

di terracotta marrone, dal becco rotto, sormontata dal coperchio d'una teiera nera, fumava all'orlo delle braci e talvolta

ribolliva sbuffando, come gemesse e sospirasse di simpatia per la povera zia Keziah e quando sospirava la cucina si

riempiva d'un gran vapore di odori vegetali, non del tutto gradevoli. Continuamente, sarà stato una dozzina di volte

durante il pomeriggio, la zia Keziah prendeva una certa bottiglietta da un suo privato ripostiglio, insieme ad una tazza e

ad un cucchiaino d'argento di fattura antica, con cui si misurava tre cucchiaiate d'un liquore che versava nella tazza già

colma a metà del decotto caldo, trangugiandolo, emettendo un grugnito di soddisfazione e mostrando per una mezz'ora

di trovare tollerabile l'esistenza.

Ma un giorno la povera zia Keziah si accorse di non riuscire più a farlo; un po' per il reumatismo, un po' per

altri malanni o debolezze, e in parte causa il dolo roso abbattimento, non ce la fece più ad arrabattarsi e si mise a letto;

sul presto, la mattina, Settimio udì bussare spaventosamente alla porta della camera di lei, che era proprio sopra la sua.

Era l'unica persona in casa e perciò lasciò con riluttanza i suoi studi, che vertevano sulla ricetta, di cui tentava di

scoprire le modalità di preparazione, esposte in maniera così misteriosa che egli non sapeva determinare né la quantità

dell'ingrediente, né il procedimento di triturazione, né la maniera di estrarne e combinarne l'essenza.

Accorrendo al piano di sopra, trovò la zia Keziah sul letto, che gemeva con dispetto e amarezza; era fin troppo

provvidenziale che un animo così ostile alla razza umana fosse costretto ad una quasi completa immobilità, poiché

sarebbe stato consigliabile altrimenti star sene ad una considerevole distanza da lei.

«Setti, buono a niente, vuoi startene lì a vedermi morire senza muovere un dito?».

«Morire, zia Keziah?» ripeté il giovane. «Spero di no! Che cosa posso fare per te? Vado a chiamare Rosa? O

magari un vicino, o il medico?».

«No, sciocco!» disse l'inferma. «Tu puoi fare tutto ciò che potrebbe fare un altro, cioè mettere la mistura sul

fuoco in cucina finché cominci a evaporare e stia giusto per bollire, poi versare tre cucchiaini di liquore o magari anche

quattro, dato che sto così male, in una tazza e riempirla a metà, o intera, dato che sto così male, come già ti ho detto;

versa sei cucchiaini di liquore in una tazza colma della misura e portamela al più presto, e non rompere la tazza e non

versare la mistura preziosa perché Dio sa quando potrò recarmi nel bosco a raccoglierne ancora. Ahi! Ahi! Questo è un

mondo crudele e miserabile ed io sono la più miserabile creatura fra tutte. Fa in fretta, buono a niente, fa come ti ho

detto!».

Settimio s'affrettò a scendere, ma nel farlo gli attraversò la mente un pensiero che, così gli sembrava, avrebbe

potuto riuscire di molto giovamento alla zia Keziah oltre che alla causa della scienza e del benessere umano nonché ai

propri propositi in primo luogo. Qualche giorno prima aveva raccolto molti esemplari del fiore bellissimo, mettendoli al

sole torrido a seccare e adesso gli sembravano nello stato delle erbe adoprate dalla vecchia. Se davvero quei fiori erano,

come egli aveva motivo di credere, l'unico ingrediente mancante da centinaia di anni nella ricetta della zia Keziah, se

era questo che lo strano sapiente indiano aveva mescolato alla sua bevanda un così benefico effetto, egli poteva

rimettercelo? E anche se non avesse ringiovanito l'amata zia Keziah, almeno ne avrebbe lenito i violenti sintomi e forse

le avrebbe prolungato la vita per anni, a sollazzo e diletto dei suoi numerosi amici.

Settimio, come la gente di mente studiosa e alacre in genere, era incline a fare esperimenti ed un'occasione

buona come la presente, nella quale (così pensava) c'era ben poco da rischiare e tanto da guadagnare, non andava

trascurata e perciò, senza indugi ulteriori, rimestò tre fiori purpurei nella brocca di terracotta, la mise all'orlo del fuoco,

agitò ben bene, e quando il contenuto cominciò a fumare e a cacciare piccoli sbuffi scarlatti, e fu sul punto di bollire,

dosò l'alcool, come la zia Keziah gli aveva ingiunto di fare e colmò la tazza.

«Questo le farà bene; non sospetta, poveraccia, quale medicina rara e costosa le sarà propinata. Ciò la rimetterà

in piedi».

Il colore era un po' mutato, egli pensò, rispetto al decotto solito della zia Keziah; invece che d'un giallo torbido,

era quasi un rosso, tanto l'avevano tinto i petali del fiore; non un rosso brillante, né in alcun modo d'aspetto invitante.

Settimio fiutò e credette di distinguere un poco del ricco sentore della pianta, ma non ne era sicuro. Si domandò se

dovesse assaggiarne, ma gli tornò alla memoria violentemente l'orribile sapore del decotto della zia Keziah e ne dedusse

che in punto di morte forse si sarebbe fatto coraggio e l'avrebbe riassaggiato, ma soltanto la speranza d'una vita

pluricentenaria poteva compensare un altro sorso di quell'amaro violento e repellente. A zia Keziah piaceva, e poiché lo

aveva preparato, che se lo bevesse pure.

Salì al piano superiore, attento a non versare un goccio dalla tazza che era colma fino all'orlo e si avvicinò al

letto della vecchia la quale giaceva rantolando come prima e scoppiò in un gracidio dispettoso allorché egli fu a portata

di voce.

«Non te ne importa niente che io viva o muoia» ella disse. «Sei rimasto ad aspettare sperando che io mo rissi

per risparmiarti altre fatiche».

«Neanche per sogno, zia Keziah» disse Settimio, «ecco lo medicina, che ho riscaldato, dosato e mescolato

come meglio ho saputo e credo che ti farà un gran bene».

«Non vuoi assaggiarne, Setti caro?» disse la zia Keziah, ammansita dall'elogio del suo amato intruglio. «Bevi

tu per primo, caro, in modo che le mie vecchie labbra malate non lo contaminino. Hai un aspetto pallido, Settimio e

questo ti farà bene».

«No, zia Keziah, non ne ho bisogno e sarebbe un peccato sprecare la tua preziosa bevanda» egli disse..34

«Non sembra della tinta giusta» disse zia Keziah prendendo la tazza in mano. «Devi averci fatto cadere della

fuliggine». E poi, portandola alle labbra: «Non ha l'odore giusto. Mah, poveretta me! Come posso sperare che qualcuno

all'infuori di me prepari come si deve questa bevanda preziosa?».

La trangugiò in due sorsate; pareva che la buttasse giù più in fretta del solito, la squisitezza del sapore non

sembrava invogliarla a centellinarla.

«Non l'hai fatto a puntino, Setti» ella disse in tono più blando, poiché sembrava che sentisse il solito effetto

lenitivo della pozione, «ma farai meglio la volta prossima. Aveva uno strano sapore, o è la mia bocca che non discerne

bene? Tempi duri per la povera zia Kezy, se non coglie più il sapore della medicina che, grazie alla Provvidenza, le ha

già salvato la vita tante volte».

Restituì la tazza a Settimio, dopo aver contemplato con una certa curiosità il fondiglio.

«Ha l'aria d'un fiore di sanguinaria canadese» ella disse. «Forse non è colpa mia, dopo tutto. Ieri pomeriggio ho

raccolto un fascio di erbe, le ho messe a mollo e forse ero un po' cieca, perché si era fra il lusco e il brusco, e la luna già

splendeva su di me prima che avessi terminato. Pensai a come le streghe raccoglievano in questo tempo i loro veleni, e

quali piacevoli usi ne facevano. Ma sono pensieri peccaminosi, Setti, pensieri peccaminosi! E perciò dirò una preghiera

e tenterò di addormentarmi. Mi sento tutta assonnata all'improvviso».

Settimio le rimboccò le coperte sulle spalle perché si lamentava del freddo e, messole il bastone a portata di

mano, scese in camera e riprese i suoi studi tentando di ricavare da quegli arcaici geroglifici, ai quali era ormai così

abituato, il metodo preciso per la preparazione dell'elisir d'immortalità. A volte, come usano gli uomini immersi in

profondi pensieri, si alzava dalla sedia e faceva quattro o cinque passi che lo portavano da un angolo all'altro della

camera. Una di quelle volte gli capitò di lanciare un'occhiata al piccolo specchio appeso tra due finestre e lo sorprese il

pallore del proprio viso. Era davvero sbiancato. Settimio non era per niente un bellimbusto, era incurante nel vestire

anche se poi il suo abbigliamento prendeva un aspetto involontariamente pittoresco che faceva risaltare la sua figura

smilza e agile, forse causa il suo spontaneo gusto delle combinazioni, eredità degli avi indiani. Eppure molte donne

avrebbero scoperto un incanto in quella faccia cupa e pensosa, piena di fuoco e di energia nascosti, anche se Settimio

non avrebbe mai pensato che potesse essere bella e di rado si specchiava. Ora però era tratto a guardarla vedendola così

stranamente bianca e fissandola si accorse come, dall'ultima volta che l'aveva considerata, un solco o ruga o fosso, come

meglio si sarebbe chiamato, gli avesse inciso la fronte, partendo dal naso per salire fino al centro della fronte. Egli

sapeva che il suo pensiero meditabondo, la sua risolutezza feroce e aspra, la sua incessante concentrazione di tanti mesi

erano venuti scavando quel solco e avrebbe dovuto essere uno specifico ben potente, un'acqua salutifera capace di

stenderlo e di restituirgli la giovinezza e l'elasticità se polte dentro quella tomba profonda.

Ma perché era così pallido? Aveva l'aria d'essere stato atterrito da qualche cosa di orrido, da un cada vere nella

camera vicina, ad esempio, o dal presentimento dell'imminenza di qualcosa del genere; non avvertiva alcun brivido per

il corpo né traccia di terrore nel cuore; e perché mai d'altronde avrebbero dovuto esserci? Sentendosi il polso, riscontrò

un battito robusto, regolare. Non era malato né spaventato, né s'aspettava di provar dolore. E allora perché quello

spettrale pallore? E perché, inoltre, o Settimio, tentavi con tanta attenzione di cogliere un qualche suono dalla stanza

della zia Keziah? Perché salisti furtivo in punta di piedi una, due o tre volte nella camera della vecchia, posando

l'orecchio sulla toppa e ascoltando col fiato corto? Ebbene forse subcoscientemente egli si rendeva conto di aver tentato

un esperimento audace, usando quella povera vecchia come cavia, nella speranza, beninteso, che tutto riuscisse bene,

eppure per dei fini ben diversi dall'interesse che poteva avervi lei. E che male c'era? I medici lo fanno sempre ed egli

per l'occasione era un medico. Ma perché, allora, era così pallido?

Sedette cadendo in una fantasticaggine suggerita in parte forse da quel gran solco di cui si è parlato, che gli

segnava la fronte. Si domandò se le sue ricerche non gli avessero consumato la vita con particolare rapidità tanto che

forse, a meno di non ottenere subito un successo, non avrebbe più saputo rinnovarla; infatti, scrutando sì, e

considerando il proprio modo di essere, gli venne una strana fantasia, che il cuore gli si andasse inaridendo, e che

doveva infondervi una certa umidità, se no si sarebbe ridotto ben presto come una foglia vizza. Anche a supporre che la

sua ricerca fosse vana, quale spreco andava facendo dello scarso tesoro di dorati giorni tutti suoi.

Si poteva chiamar vita, questa che adesso menava? Così dissimile da quella degli altri giovani? Così diversa

per esempio da quella di Robert Hagburn! Ieri, era giunta notizia della parte eroica da lui avuta nella battaglia di

Monmouth e della promozione a capitano in seguito alla sua condotta coraggiosa.

Senza pensare ad una lunga vita, egli viveva veramente atti ed emozioni eroici, in poco tempo godeva di molta

vita né temeva di sacrificare un'esistenza di neghittosi respiri all'estasi d'una morte gloriosa!

[Appare evidente da un bozzetto scritto dell'autore che egli mutò il suo piano originario inteso a raffigurare

come fidanzati Settimio e Rose, facendo invece di questa una sorellastra e nella copia destinata alla stampa tale

modificazione sarebbe stata introdotta].

Ma Robert oltretutto amava, amava la sorella di Settimio, Rose, cogliendo senza dubbio una sensazione

d'immortalità in questo appassionato sentimento. Perché Settimio non poteva amare anche lui? Era forse vietato? No,

ma quale donna avrebbe egli potuto amare? Quale, in tutto il mondo, sarebbe stata così adatta al suo cuore segreto e

pensieroso da poterla introdurre nelle sue stanze più misteriose e da poter passeggiare con lei da una cavernosa tenebra

all'altra dicendole: «Ecco i miei tesori. Ti faccio padrona, tutti questi beni li dono a te?». E poi, svelandole il suo grande

e segreto proposito di ottenere una vita immortale le avrebbe detto: «Anche tu l'avrai, la condividerai con me.

Cammineremo insieme lungo il sentiero infinito infondendo calo re nei cuori a vicenda, e così saremo felici di vivere»..35

O Settimio! Tu stai violando quelle tue norme, le quali, fredde come sono, furono pur tratte da una filosofia

sottile e ti assicurerebbero, soltanto che tu le seguissi, tutto ciò che desideri: ma se le infrangi, lo fai a rischio della tua

immortalità terrestre. Ogni palpito più caldo e rapido del cuore consuma una porzione corrispettiva della vita. Le

passioni, gli affetti sono un vino cui non ci si dovrebbe abbandonare. L'amore soprattutto, essendo per essenza

immortale non può essere contenuto a lungo in nessun corpo terrestre, ma anzi tende a logorarlo con la sua energia

occulta, per quanto paia invece dolcemente rinvigorirlo. Perciò freddo devi essere, o Settimio, non devi desiderare

intensamente e appassionatamente nemmeno questa immortalità che ti sembra così necessaria. Altrimenti il desiderio

impedirà il proprio appagamento.

Intanto a distrarlo da codeste rapsodie Rose tornò a casa e vedendo che il focolare della cucina era freddo e zia

Keziah assente, e che sul fuoco già in procinto di spegnersi, non c'era nessuna traccia del pranzo ma soltanto la famosa

brocca di terracotta che vaporava mandando sbuffi protratti e sgraziati, bussò alla porta di Settimio domandandogli che

cosa fosse successo.

«Zia Keziah l'ha vista brutta» disse Settimio, «e si è messa a letto».

«Povera zietta» disse Rose, pronta come sempre al la compassione. «Corro subito su a vedere se ha bi sogno di

qualcosa».

«No, Rose» disse Settimio, «si è certamente addormentata e si desterà in gamba come sempre. Le

dispiacerebbe molto se tu perdessi la lezione del pomeriggio scuola, e perciò sarà meglio che apparecchi con quel che

rimane del pranzo di ieri, lasciandomi qui a curare la zietta».

«Bene» disse Rose, «certo lei preferisce te, ma se fosse davvero ammalata rinuncerei alla scuola per

accudirla».

«Senza dubbio» disse Settimio, «domani sarà di nuovo affaccendata per casa».

Così Rose fece il suo pasto frugale, composto soprattutto di porcellana e di altre erbe dell'orto che la zia

parsimoniosa aveva preparato a bollire e tornò come al solito a scuola; zia Keziah, come s'è detto, mai aveva

incoraggiato le tenere cure di Rose, il cui carattere donnescamente ordinato, con la sua cerchia ben delineata di doveri

quotidiani compiuti con zelo, l'aveva sempre colpita come troppo spento; tant'è, una volta le aveva detto: «Non sei una

donna indiana, ragazza mia, e da te non si caverà mai una strega». Non permetteva a Rose neanche di mettere il té a

macerare o di renderle nessun altro servizio, benché non si astenesse certamente dall'esigere da lei una congrua parte dei

lavori domestici.

Settimio era seduto nella sua camera ed il pomeriggio andava volgendo alla fine; per un motivo o per l'altro o

forse anche senza motivo di sorta non uscì a prendere una boccata d'aria, non aerò i suoi pensieri sul colle come di

solito, e sedeva cogitabondo, meditando, guardando il suo misterioso manoscritto allorché udì la zia Keziah che si

muoveva nella camera di sopra. Prima cominciò a scuotere una sedia, poi cominciò a battere lentamente, regolarmente

con il bastone lasciato da Settimio accanto al letto, il che stranamente lo spaventò; il cuore gli si accelerò ben oltre le

settantacinque pulsazioni al minuto cui era tenuto dalle sagge norme che era venuto assimilando. Sali di corsa al piano

superiore ed ecco la zia Keziah seduta sul letto, con faccia selvaggia, così selvaggia che l'avresti detta in procinto di

volar su per il camino; la chioma grigia era sconvolta, gli occhi fissi, le mani tese in avanti in atto di ghermire, ululava

di dolore e di inquietudine.

«Setti, Setti!» ella disse «Setti caro! sei ben sicuro di ricordarti come si fa quella bevanda preziosa?».

«Benissimo» egli rispose, assai allarmato dall'aspetto di lei, ma mantenendo una compostezza di lineamenti

veramente indiana. «Lo trascrissi e potrei recitarlo ad dirittura a memoria. Vuoi che ne prepari un'altra brocca? L'altra

l'ho buttata via».

«Ed hai fatto bene, Setti» disse la povera vecchia, «perché aveva qualcosa che non m'andava, ma non ne voglio

altra, sto andandomene di gran carriera da questo mondo, dove tu e questa preziosa bevanda eravate i miei unici conforti

e tesori. Volevo sapere se ti ricordavi la ricetta, questo è l'unico bene che ho da lasciarti e più ne bevi meglio sarà. Bada

soltanto a prepararla come si deve».

«Zietta cara, che cosa posso fare per te?» disse Settimio, assai costernato, ma sempre con calma. «Lascia che

corra a chiamare il medico, o i vicini! Bisognerà ben fare qualcosa».

La vecchia si contorceva come terribilmente soffrendo nelle viscere e ghignava e distorceva la gialla bruttezza

del viso e rantolava e ululava; tuttavia combatteva contro il suo tormento con una feroce pertinacia senza cedere d'un

palmo pur concedendosi il sollievo di inveire con furia selvaggia; era piuttosto un grido di sfida che un'implorazione di

misericordia.

«Né medico né comare!» ella disse. «Se non mi poté salvare la mia bevanda, che possono fare le sciocche

pillole e le polverine d'un medico? E una comare poi! Se fosse viva la vecchia Marta Denton, la strega, sarei contenta di

vederla. Ma le altre! Bah! Ahi, ahi! Oh! Ah! Setti, che sollievo se potessi mettermi adesso a bestemmiare un pochino

scuotendo il pugno contro il cielo! Ma sono cristiana, Setti! Una cristiana».

«Vuoi che mandi a chiamare il sacerdote, zia Keziah?» domandò Settimio. «È un uomo buono, e anche

saggio».

«Niente sacerdote per me, Setti» disse zia Keziah, ululando come se qualcosa la soffocasse, «potrà essere un

uomo buono e anche saggio ma non è abbastanza saggio da conoscere la via che porta al mio cuore, e non c'è stato mai

un uomo capace di tanto! Ah, Setti, sono cristiana sì, ma non come le altre cristiane e sono felice di andarmene da

questo stupido mondo. Non sono stata cattiva e posso vantarmene, perché mi sarebbe andato più a genio d'essere

cattiva. Che vita deliziosa doveva essere quella della strega, quando partiva su per il camino a mezzanotte inforcando la.36

scopa, per poi guardare dall'alto del cielo il villaggio assopito, con il campanile puntato contro di lei che poteva

toccarne il galletto d'oro della banderuola! Tu in estasi e sotto di te l'umanità tarda, innocente, sobria; la moglie che

dorme accanto al marito, o la madre accanto al bambino con lo stomaco borbottante; il buon uomo che sospinge la

mandria e l'aratro. Tutti così innocenti, così scemi, con i loro giorni monotoni uno simile all'altro, l'uno dopo l'altro. E tu

su nei cieli, che t'affretti verso un qualche angolo della foresta! Ah, ecco, chi è? Un mago! Ah, ah! E dire che laggiù è

noto come diacono! Ecco Goody Chickering, che ha mandato a letto così tranquillamente i ragazzini dopo le preghiere!

Ecco un indiano, ecco un moro, hanno tutti uguali diritti e privilegi, in un raduno di streghe. Scioh, il vento spira gelido

quassù! Perché l'Uomo Nero non combina l'adunata accanto al suo focolare? Oh, oh! Povera me! Ma io sono cristiana e

non una strega! Però, dovevano essere tempi grandiosi quelli!».

Certo fu un fervoroso vagabondaggio della mente che trasportò la povera vecchia in questa arcaica trasvolata

stregonesca e fu curioso e pietoso vedere con quale compunzione tornò in sé, biasimandosi per aver mostrato di

preferire, com'era inevitabile per una natura selvaggia quale la sua, la malvagità sfrenata alla bontà insulsa. Ora tentava

di ricomporsi e di parlare ragionevolmente e piamente.

«Ah Settimio, ragazzo mio caro, non cedere mai alla tentazione, non acconsentire a essere un mago, anche se

l'Uomo Nero ti persuadesse con tutta la sua forza. Per ché tentarti ti tenterà, lo so io. Ha tentato me ma non ho mai

ceduto, non gliel'ho mai data vinta e neanche tu devi cedere, ragazzo mio, tu con la tua carnagione fosca e la tua fronte

cogitabonda ed il tuo occhio velato salvo quando ne scocca una vampa di fuoco, sei proprio il tipo che lui cerca fra tutti

e che dopo gli serve a puntino. Non lo fare, Settimio. Certo, se tu potessi essere un Indiano, quella si che sarebbe vita,

altro che questa, così addomesticata, che meniamo noi. Io la preferirei, questo è poco ma sicuro. Bello sarebbe stato

passare l'esistenza errando per i boschi, odorando i pini e l'assenzio e cose fresche tutto il giorno, senza lavori di cucina,

senza dover attizzare il fuoco, né spazzare in terra, né rifare i letti, dormendo su fronde fresche nella capanna, dove le

foglie sarebbero ancora attaccate ai rami con cui s'è costruito il tetto! E poi vedere portare dentro il cervo dal cacciatore

pellerossa, con il sangue colante dalla freccia conficcata! E che lotte! E che scotennamenti! E magari una donna si può

insinuare carponi nella battaglia e si ruba un ferito e se lo scotenna e dopo viene lodata da tutti! O Setti, come detesto, a

pensarci, l'esistenza smorta che conducono le donne! È così monotona la vita d'una bianca! Grazie al cielo, per me è

fatta, è finita! Se mai tornassi a vivere, che io possa essere tutta indiana, lo voglia il Creatore».

Dopo questo lungo sfogo, la zia Keziah stette quieta per qualche istante, con gli scarni artigli stretti l'uno

all'altro e la gialla faccia ghignante, d'aspetto quant'era possibile pio date le sue fattezze aspre e deformate dal dolore, e

Settimio s'avvide che era assorta in orazione. Tant'è: la vecchia gli si rivolse con una cupa tenerezza dipinta in volto e

tese la mano per farsela stringere. Egli afferrò il nocchiuto artiglio fra le due palme.

«Setti caro, sento una gran pace e non credo che ci sarà motivo di turbamento per me nell'altro mondo. Non

sarà certo tutto un lavoro domestico e un tenersi a posto e un fare come fanno gli altri. Immagino che non dovrò

montare a cavallo d'un manico di scopa, lassù; questo sarebbe male in qualsiasi genere di mondo, ma ci saranno certo

dei boschi dove passeggiare e una pipa con cui aspirare l'aria del paradiso e alberi nei quali stormirà il vento e che si

potranno odorare, tutte cose naturali e felici; e poi spero di vederci anche te un giorno, Setti, caro il mio ragazzo! Vieni,

fra un po' di tempo, non vale la pena vivere per sempre, anche se tu scoprissi ciò che manca nella pozione che ti ho

insegnato. Adesso spingo lo sguardo per una certa distanza nell'aldilà, e m'accorgo che è assai migliore di questo

pesante e sciagurato vecchio mondo dove stiamo adesso. Morirai quando verrà la tua ora, nevvero, Setti caro?».

Sì, cara zietta, quando giunga l'ora» disse Setti mio, «è probabile che allora non avrò più voglia di vivere».

«Forse no» disse la vecchia. «Io sono ben sicura di non volerlo. Morire è come addormentarmi sul letto di mia

madre. Sicché, buona notte, caro Setti!».

«Buona notte e che Dio ti benedica, zietta!» disse Settimio, accecato da un fiotto di lacrime a dispetto della sua

natura indiana.

La vecchia si ricompose e giacque ferma e piena di decoro per breve tempo; poi, sollevandosi un poco, disse:

«Settimio, c'era ancora un goccio della mia bevanda? Non che voglia vivere più a lungo, ma se potessi pigliarne un

sorso, anche poco, sento che entrerei nell'aldilà del tutto allegra, col cuore così riscaldato? senza sentirmi timida e

vergognosa a dovermene andare fra estranei».

«Neanche un goccio, zietta».

«Beh, non importa! Quell'ultima tazza non andava del tutto bene. Aveva un gusto strano. Che cosa ci hai messo

dentro, Setti caro? Non importa! Non importa! È una cosa ben preziosa, a saperla combinare bene. Non scordare le erbe,

Settimio. Ci era entrato dentro qual cosa di sbagliato».

Queste furono le ultime parole della povera zia Keziah, salvo certi bofonchiamenti, certi rantoli e bisbigli

inintelligibili, ed ella non visse molto dopo di ciò, e infine mori con un gran sospiro, simile ad una raffica di vento fra

gli alberi, dopo aver ancora una volta teso la mano ad afferrare quella di Settimio; ed egli rimase seduto a guardarla,

stupefatto, inorridito, commosso, interdetto dalla morte di cui aveva un terrore così straordinario, e specie dalla morte di

questa creatura per la quale provava simpatia come per nessun'altra persona vivente. Così restò seduto a lungo, le teneva

una mano, e alla fine s'accorse che essa stava diventando fredda nella sua e che le dita già irrigidite lo ghermivano,

come decise a ribadire il possesso e a non rinunciare al vincolo che era stato così peculiare.

Poi, precipitandosi fuori, lo raccontò al primo vicino, che era la madre di Ròbert Hagburn, la quale chiamò a

raccolta un po' di comari e venne a prendersi cura della povera zia Keziah. Non ne parlavano con gran rispetto, temo, né

con gran dolore, né con la persuasione che la comunità soffrisse una gran perdita a causa della scomparsa di lei che era,

a parere loro, una vecchia zitella beona, fumatrice di pipa, bisbetica e, secondo taluni, strega e, comunque, con troppo.37

sangue indiano nelle vene per essere una qualcosa di buono; adesso speravano che Rosa Garfield avrebbe fatto una vita

più gradevole e Settimio studiato da prete, e che tutto sarebbe andato bene, e il luogo sarebbe diventato più allegro.

Trovarono la bottiglia della zia Keziah nella credenza, l'assaggiarono e fiutarono.

«Un rum della Giamaica come ne ho assaggiato pochi» disse la Hagburn, «ed ecco la sua brocca rotta, sul

focolare. Vuota! Mai mi potetti convincere ad assaggiarne ma adesso mi dispiace perché probabilmente nessuno saprà

più prepararne l'uguale».

Settimio frattanto si era recato sulla vetta, suo rifugio ogni qualvolta l'atmosfera della casa sembrava troppo

oppressiva, e lassù passeggiò avanti e indietro con una calma e un'indifferenza di cui lui stesso si meravigliava; poche

cose al mondo sono così sorprendenti come la quiete superficiale che si stende sulla mente d'un uomo nei frangenti più

gravi: egli si crede allora perfettamente tranquillo e si rimprovera di non provare niente, proprio quando è tutto agitato

dalla passione. Mentre andava avanti e indietro Settimio guardava i sontuosi fiori purpurei che parevano fiorire in una

pro fusione più che mai lussureggiante. Aveva, con quei fiori, fatto un esperimento e lo incuriosiva sapere se esso fosse

stato la causa della morte della zia Keziah. Non che ne sentisse rimorso alcuno comunque, o che ritenesse d'aver

commesso un delitto, anzi aveva inteso e voluto fare soltanto del bene. Credo che simili cose (ed ha da essere un medico

ben fortunato colui che non abbia combinato un guaio del genere nella propria esperienza) non gravino mai con un peso

mortale sulla coscienza d'un uomo. Talvolta occorre rischiare in nome della scienza e nei casi disperati bisogna rischiare

a prò del paziente stesso. Settimio, pur amando la vita, non avrebbe esitato a correre lui stesso il rischio cui aveva

sottoposto la zia Keziah; o, se avesse avuta qualche esitazione, sarebbe stato soltanto perché, qualora l'esperimento

fosse fallito, non avrebbe potuto fare un nuovo e più felice tentativo; provando su altri l'uomo di scienza si mette in

salvo per nuove imprese e non scommette tutte le speranze su un unico lancio di dadi.

Egli s'imbatté dopo poco in Sibyl Dacy, la quale era salita sul colle, com'era usa fare, verso il tramonto e gli

veniva incontro fissandolo intensamente in faccia. «Mi dicono che la povera zia Keziak non è più fra noi» ella disse.

«È morta» disse Settimio.

«Il fiore è una gran medicina» disse la giovane «ma tutto dipende da una giusta applicazione.

«E voi conoscete il modo, dunque?» domandò Settimio.

«No, dovreste domandarlo al dottor Porstoaken» disse Sibyl.

Il dottor Porstoaken! Avrebbe dovuto consultarlo! Quel celebre chimico e scienziato aveva sicuramente sentito

parlare della ricetta e comunque sarebbe stato al corrente dei migliori modi di estrarre le virtù dalle erbe e dai fiori,

alcuni dei quali Settimio, a furia di leggere, sapeva essere velenosi in una data fase e forma della preparazione e

viceversa pregni delle più abbondanti virtù in altre fasi: il loro veleno era per così dire una tenebrosa e terribile garanzia

che la Provvidenza dava del loro pregio, come un drago o qualche spettro selvaggio e feroce che venga messo a

sorvegliare l'oro e i cumuli di diamanti nascosti. C'è sempre un drago a custodia degli oggetti di gran valore. E che cosa

meritava la vigilanza e tutela di un drago, o d'un essere ancora più fatale, se non questo tesoro alla cui ricerca si era

messo Settimio, la cui scoperta ed il cui possesso gli avrebbero permesso di abbattere una delle più robuste barriere

della natura?

Tentare una tal cosa meritava la morte, non si sogna va di negarlo, perché quale non sarebbe stato il mutamento

dell'esistenza qualora egli fosse riuscito nel suo proposito: era giocoforza che l'umanità fosse difesa da simili tentativi,

per norma generale, con l'unica eccezione di lui stesso. Come eliminare la Morte? Il signore sarebbe vissuto in perpetuo

e l'erede non avrebbe mai toccato il retaggio, e così avrebbe odiato il proprio padre pensando di non potersene mai

liberare.

Lo stesso ceto di menti poderose avrebbe continuato a governare lo Stato, e non ci sarebbe mai più stato un

cambiamento politico.

[A questo punto mancano molte pagine.]

Attraverso a tali luoghi, Settimio cercò l'indirizzo fornitogli dal dottor Porstoaken e arrivò all'uscio d'una casa

nella parte vecchia della città. La Boston di allora aveva piuttosto l'aspetto di certe città della provincia inglese, quali si

vedono ancora oggi, ma in seguito è stata sottoposta a così notevoli cambiamenti che vi rimane ben poco a ricordarci

come l'avevano costruita i nostri avi: con strade sbilenche e strette, le case spesso a frontoni, aggettanti, dalle finestre a

grata con vetri a losanghe; mancavano i marciapiedi, la pavimentazione era sconnessa.

Settimio bussò con forza alla porta né dovette attendere a lungo prima che apparisse una serva, inglese

all'aspetto, la quale quando le domandò del dottor Porstoaken, l'invitò a entrare e lo condusse su per una scala dagli

ampi pianerottoli, poi bussò alla porta di una camera, donde una voce rude le rispose: «Avanti».

La donna apri l'uscio e Settimio scorse il dottor Porstoaken in persona, in una vestaglia vecchia e stinta, una

berretta da notte sulla testa, la pipa tedesca in bocca ed una bottiglia si sarebbe detto di cognac accanto, sul tavolo.

«Avanti, avanti» disse lo sgarbato dottore facendo cenno a Settimio, «vi ricordo benissimo. Avanti brav'uomo

e ditemi di che cosa si tratta».

Settimio entrò, ma rimase talmente colpito dall'aspetto dell'appartamento del dottor Porstoaken e dalla sua

vestaglia che non rivelò subito che cosa fosse venuto a fare. In primo luogo tutto aveva un'aria polverosa e sudicia,

prova che nessuna donna era stata ammessa nel santuario e ciò risaltava vieppiù a causa della gran copia di ragni che

avevano ordito le loro tele sui muri e sulla volta nella massima confusione benché ogni singolo ragno poi conoscesse

individuatamente il filo che aveva estratto dalle sue viscere prodigiose. Ma era strano davvero: avevano teso i loro

festoni su ogni oggetto stabile, formando una specie di tappezzeria grigia e cupa che oscillava portentosamente nella

brezza e sbatteva pesante e triste, ciascun festone con il suo ragno al centro dell'intreccio..38

La cosa più mirabile era un ragno sopra la testa del dottore, un ragno, credo, di razza sudamericana, con una

circonferenza totale delle zampe grande come una tazza e un corpo al centro grande come un dollaro; dava un brivido di

ribrezzo pensare a quel che sarebbe accaduto se un mostro simile fosse stato schiacciato e allo stesso tempo veniva in

mente il pericolo di restare avvelenati che si correva a lasciarlo vivere. Il mostro, comunque, stava in mezzo al sartiame

tenace della sua tela proprio sopra la testa del medico; e pareva, fra tutte quelle linee complicate, il simbolo d'un

prestidigitatore o scaltro politico nel mezzo della complessità d'un suo piano, tanto che Settimio si domandò se non

fosse per avventura l'immagine del dottor Porstoaken stesso, il quale, grasso ed enfiato come il ragno, pareva al centro

d'un tenebroso maneggio. E poteva darsi che il povero Settimio fosse rappresentato dall'affascinata mosca destinata a

farsi irretire.

«Buon giorno a voi» disse lo sgarbato dottore, levandosi la pipa di bocca. «Eccomi qui con i miei fratelli ragni

nel mezzo della mia tela. Vi dissi, come ricorderete, della mirabile forza da me scoperta nelle tele dei ragni e questo è il

laboratorio dove tengo centinaia di operai che mi distillano la mia panacea. Non è forse una vita stupenda?».

«Stupenda, a dir poco» disse Settimio. «Il mostro che vi sta sospeso sopra la testa dà certamente un'idea assai

favorevole della vostra teoria. Ci dev'essere in lui una bella quantità di veleno!».

«Lo chiamate veleno, voi?» disse il truce dottore. «Dipende dall'uso che se ne faccia. Certo un suo morso

spedirebbe un uomo nell'aldilà, ma d'altra parte nessuno può desiderare una sagola di salvataggio migliore del filo di

questo tizio. Lui ed io siamo amici incrollabili, e credo che egli individuerebbe a naso i miei ne mici. Ma venite,

sedetevi, prendete un bicchiere di cognac. No? Bene, berrò io per voi. E come sta quella vecchia zia con quella sua

pozione infernale la cui amarezza e nauseosità ancora il mio stomaco non ha dimenticato?». «Mia zia Keziah non è più

con noi» disse Settimio.

«Non più! Confido nel cielo che si sia portata con sé il suo segreto» disse il dottore. «Se c'è qualcosa che può

consolarvi della perdita è proprio questo. Ma che cosa vi ha indotto a venire a Boston?».

«Soltanto qualche fiore secco» disse Settimio, mostrando alcuni esemplari della strana flora del sepolcro.

«Vorrei che me ne diceste qualcosa».

Il naturalista prese in mano i fiori, uno dei quali aveva ancora la radice attaccata, esaminandoli con gran de

meticolosità e una certa quale sorpresa; due o tre volte guardò in faccia Settimio con aria perplessa e interrogativa, poi

tornò a esaminarli.

«E mi dite che codesta pianta è indigena del paese e delle vostre parti? E di quale località?».

«Per quel che ne so io, indigena» rispose Settimio. «Quanto alla località» esitò un poco, «è un tumulo poco più

grande d'una termitaia sulla cima del colle dietro casa mia».

Il naturalista lo guardò con occhi sbarrati, rossi, avvampanti sotto le sue sopracciglia lunghe, incombenti,

irsute, poi tornò a guardare il fiore.

«E lo chiamate fiore?» disse, dopo averlo riesaminato. «Questo non è un fiore, benché ad un fiore somigli

tanto, bellissimo per giunta, bellissimo davvero.

Ma non è un fiore. È un rarissimo fungo, così raro da essere ritenuto favoloso e ci sono superstizioni

stranissime risalenti a tempi remoti intorno al modo in cui si sviluppa. Che specie di letame è stato steso al tumulo?

Soltanto foglie secche, rifiuti della foresta o qualche cos'altro?».

Settimio esitò un poco; ma non c'era motivo alcuno di tener nascosta la verità, nella misura in cui il dottor

Porstoaken la volesse conoscere. «Il tumulo dov'è spuntato» egli rispose «era una tomba».

«Una tomba! Strano! Strano!» esclamò il dottor Porstoaken. «Queste vecchie superstizioni talvolta hanno nel

loro fondo un germe di verità; qualche filosofo la scoprì e svelò in epoche lontane, ma col passar del tempo il dotto

ricordo della sua persona svanisce e la verità, celata, gli sopravvive, e la gente se ne impadronisce e ne fa il nucleo

d'ogni specie di follia. E così sarebbe spuntato da una tomba! Sì, certo, e forse sarebbe spuntato da qualsiasi carne morta

e non necessariamente da quella umana; un cane sarebbe stato adatto quanto un uomo. Dovete sapere che i semi dei

funghi sono così universalmente diffusi che bastano certe con dizioni e li farete nascere dovecchessia. Preparategli il

letto che desidera ed un fungo spunterà da solo, cibo eccellente, manna celeste. Così la superstizione dice: ammazza il

tuo più mortale nemico e piantalo nella terra ed ecco che egli ne spunterà come un fungo delizioso, che immagino sia

questo. Fallo macerare e distillare, e ti fornirà l'elisir di lunga vita. Immagino che in tutta la faccenda ci sia un qualche

sciocco simbolismo, ma il fatto resta e lo confermo con tutta serietà. La carne morta, in certe condizioni di pioggia e

sole, finora non precisate dalla scienza, produrrà il fungo, poco importa che il concime sia un amico o un nemico o del

bestiame».

«E quale è la sua efficacia medicinale?» domandò Settimio.

«Può anche essere notevole, per quel che ne so io» disse Porstoaken; «ma io me ne sto pago delle mie tele di

ragno. Potete scoprirvela da solo. Però se quel poveraccio ci rimise la pelle nell'ipotesi che potesse convertirsi in un

utile ingrediente per una ricetta, voi siete certamente un professionista senza troppi scrupoli».

«La persona i cui resti mortali stanno in quella tomba» disse Settimio, «non era un mio nemico; voglio dire,

non era un nemico privato, benché militasse fra i nemici della patria né io avevo qualcosa da guadagnare dalla sua

morte. Tentai di non togliergli la vita, ma egli mi ci costrinse».

«Un colpo a caso può far cadere a terra l'uccellino» disse il dottor Porstoaken. «Dite di non averci avuto un

interesse. - quello che si scoprirà alla fine».

Settimio non provò neanche a seguire la conversazione fra le misteriose allusioni nelle quali il dottore la volle

avvolgere, ma procurò di cavare da lui notizie circa il modo di preparare la ricetta, e di sapere se la ritenesse più.39

efficace come decotto o come distillato. Il dotto chimico appoggiò recisamente quest'ultima opinione e mostrò a

Settimio come poteva costruirsi un apparato senza altri elementi che la teiera di zia Keziah e qualche amminicolo che lo

stesso dottore fornì e con cui tutto si poteva eseguire con il massimo scrupolo.

«Fatemi rivedere la formula» disse. «Ci sono molte indicazioni particolareggiate che possono sembrare di

nessun conto, ma è rischioso trascurare perfino delle minuzie nella preparazione d'una faccenda come questa, perché

essendo misteriosa e ridotta a furia di triturazioni in una sola massa, è ben difficile stabilire quale possa costituirne la

parte importante ed efficace. Per esempio, quando tutto è fatto, la pozione va esposta per sette giorni al sole e alla luna.

Questo sembra non avere importanza ma potrebbe viceversa averne molta. E inoltre, si raccomanda di inondarla di luce

lunare durante il secondo quarto! Si sarebbe tentati di pensare che questo sia tutto un vaniloquio, ma non si sa mai. È

strano che fra tante precisazioni non vengano fornite direttive esatte quanto al problema se si debba farne un decotto o

un infuso o una tisana ovvero distillarlo o che so io; il consiglio mio è di distillare».

«Così farò» disse Settimio, «e non tralascerò nessuna indicazione».

«Sarò curioso di conoscere il risultato» disse il dottor Porstoaken, «e sono contento di vedere lo zelo con cui

affrontate la cosa. Forse grazie alla vostra sagacia una medicina di grande valore verrà ricuperata alla scienza e farà la

vostra fortuna, anche se per conto mio preferisco riporre ogni fiducia nelle mie tele di ragno. Questo ragno non è forse

un oggetto mirabile? Vedete, è capace di conoscenza e d'affetto».

Sembrava infatti che ci fosse una qualche specie di comunicazione fra il dottore ed il suo ragno, perché, ad un

cenno del primo, impercettibile a Settimio, il mostro dalle molte zampe si calò con un filo estratto estemp oraneamente

dalle proprie viscere e venne a spenzolare la sua grossa mole davanti al volto del padrone, mentre questi gli prodigava

molti epiteti carezzevoli, ridicoli e non privi d'orrore, essendo largiti ad un prodotto così orrido della natura.

«Vi assicuro» disse il dottor Porstoaken, «corro qualche rischio a causa della mia intimità con questo bel

gioiello, e se non mi comporto con somma prudenza i vostri compatrioti mi impiccheranno come stregone, sopprimendo

questo ragno prezioso come spirito folletto mio succube. E sarebbe una perdita per il mondo; non scarsa, quanto a me,

ma enorme addirittura quanto al ragno. Ecco, guardatelo un po' adesso e ditemi se la semplice osservazione, anche

senza conoscerne affatto il valore, non scopre in lui valori immensi».

Invero, osservato attentamente, il ragno mostrava quanta cura ed arte fossero state profuse nella sua fattura, sì

da renderlo un oggetto non di mera curiosità, ma addirittura di bellezza assoluta, quanto bastava a dimostrare che

doveva essere una creatura piuttosto eccezionale agli occhi della Provvidenza, essendo così variegata, maculata da cento

puntolini di colore gloriosamente raggianti, d'uno splendore emanante da tutte queste lucentezze agglomerate; era pur

strano che tutta questa cura venisse prodigata per una creatura la quale probabilmente non era mai stata osservata

attentamente salvo dalle due paia d'occhi che adesso la fissavano; e che nonostante la sua bellezza e magnificenza, si

poteva guardare soltanto a patto di superare la misteriosa repulsione che la sua presenza destava; per tutto il tempo che

Settimio guardò con ammirazione, continuò a detestare quell'essere ed a giudicare un male che fosse mai nato, e a

desiderarne la distruzione. Se il ragno si accorgesse o meno del desiderio non siamo in grado di appurare, ma certo

Settimio se lo sentiva ostile e gli pareva che avesse voglia di pungerlo; anche il dottor Porstoaken sembrava di quel

parere.

«Aha, amico mio» egli disse. «Vi consiglio di non avvicinarvi troppo a Oronto! È una bestia stupenda, è vero,

ma in un qualche recesso della sua splendida forma tiene un modesto rifornimento d'un certo veleno potente e

penetrante, che produrrebbe uno straordinario effetto in qualsiasi carne viva su cui egli desiderasse provarlo. Una

creatura potente è Oronte, ed ha un senso acutissimo della propria dignità e importanza e non ammette che lo si prenda

a gabbo».

Settimio si allontanò dal ragno, il quale si ritrasse arrampicandosi su per il suo filo e si arroccò nel mezzo della

tela, dove rimase in attesa della preda. Settimio si domandò se il dottore fosse simboleggiato dal ragno e stesse del pari

in attesa della preda nel mezzo della sua tela. Comunque, non indovinando il modo in cui il dottore potesse approfittare

di lui, o come egli potesse caderne vittima, quel pensiero non turbò la sua pace. Sta va per prendere congedo, ma il

dottore, con modi scanzonati e irridenti, gli ordinò di fermarsi, volendo che restasse suo ospite almeno per la notte.

«Vi debbo un pranzo» disse «e ve lo ripagherò con una cena e con del sapere; e prima che partiate ho delle

domande da rivolgervi, il cui fine forse vi apparirà dapprima oscuro, ma che non sono del tutto gratuite. Il mio folletto

succube lassù, mi ha sussurrato qualcosa sul vostro conto, ed io mi fido delle sue rivelazioni».

Settimio, che aveva senso comune a sufficienza ed era invulnerabile dalle influenze superstiziose su ogni punto

eccetto quello cui si era dedicato, venne facilmente indotto a restare poiché trovava assai curiose le conoscenze

singolari, ciarlatanesche e piene di mistero di quell'uomo che, a onor del vero, possedeva una cultura scientifica tale da

renderlo molto interessante per uno che ignorasse completamente l'argomento; l'acume di Settimio, inoltre, era

sollecitato a scoprire che specie d'uomo quegli fosse realmente e quanto fossero forti in lui la scienza genuina e la

fiducia in se stesso, e quanto fosse invece pura truffa e consapevole empiricità. Così rimase e cenò col dottore ad un

tavolo imbandito e fornito di rare leccornie più di quel che Settimio si fosse mai immaginato e, data la sua semplice

convinzione, che si mangiasse soltanto per vivere, non poteva non stupire vedendo un uomo di pensiero che mangiava

più di una portata, sicché passò la maggior parte del pasto guardando il dottore che si cibava e ascoltandolo parlare delle

vivande.

«Se un uomo vivesse soltanto per mangiare» disse il dottore, «una vita non basterebbe, non dirò per esaurirne il

piacere ma per impararne i rudimenti»..40

Terminata questa importante faccenda, il dottore e il suo ospite sedettero nuovamente nel laboratorio dove il

primo ebbe cura di collocarsi al fianco la sua abituale compagna, la fiaschetta nera, e riempi la pipa e diventò di un

umore cupamente cordiale, fieramente e brutalmente amabile, e guardò Settimio con una sorta di bonaria amicizia,

quasi fosse disposto tanto a stringergli la mano come a prenderlo a pugni.

«E ora, passiamo agli affari» disse.

Settimio pensò, tuttavia, che il discorso del dottore cominciasse per lo meno a una considerevole distanza da

qualsiasi tangibile affare, perché prese a interrogarlo intorno ai suoi più remoti antecessori, su quel che sapesse e fosse

stato tramandato intorno al primo emigrante inglese; di dove, da qual provincia o parte d'Inghilterra, quell'antenato

venisse, se vi fosse di lui memoria o retaggio di qualche sorta, lettere o documenti, testamenti o contratti o altra carta

legale; in breve, volle sapere tutto il possibile.

Settimio non riusciva a rendersi conto se queste indagini fossero fatte con qualche definito proposito, o per una

generica curiosità di scoprire come una fami glia sbarcata in America fino dai primordi fosse ancora legata in qualche

modo alla vecchia patria; se vi fossero ancora dei tentacoli allungati al disopra del golfo di 150 anni che separava il

ramo americano della fami glia dal tronco dell'albero genealogico inglese. Il dottore dette una spiegazione parziale:

«Dovete sapere» disse, «che il nome da voi portato, Felton, è un nome che fu in antico eminente e di grande

fama nella regione d'Inghilterra donde io stesso vengo, e ancora in questi tempi ricco di beni e posto in posizione

eminente. Mi piacerebbe sapere se appartenete a quella stirpe».

Settimio rispose con quei fatti e quelle tradizioni familiari che potevano essergli giunti all'orecchio; una sorta

di storia, questa, che può benissimo essere mitica, nei suoi stadi primitivi e più remoti, come la storia di Roma, e che, in

realtà, di rado risale a tre o quattro generazioni prima senza perdersi in una nebbia del tutto impenetrabile, sebbene

grandi, tenebrose e magnifiche figure d'uomini sembrino profilarvisi, figure che, se evocate a poca distanza dall'occhio

nudo, si rivelerebbero altrettanto comuni quanto i discendenti che le contemplano ammirati. Egli ricordava la leggenda

di zia Keziah, e disse di aver ragione di pensare che il suo primo antenato arrivasse quaggiù qualche tempo prima dei

primi colonizzatori puritani, e abitasse tra gli Indiani, dove (e qui abbassò gli occhi con l'aborrimento tipico degli

americani per ogni meticciato) sposò la figlia di un capo e gli successe nel governo della tribù. Questo poteva essere

accaduto fin dagli ultimi anni di regno di Elisabetta, forse un poco più tardi. Impossibile fissare date in cose del genere.

Da quella unione era nato un figlio, più d'uno forse, ma certamente uno, che, all'arrivo dei puritani era ancora un

ragazzo. Il padre, a quanto sembra, venne ucciso in qualche disordine della tribù, forse causa la gelosia di altri capi al

vedere abrogata, o assunta da uomo d'altra razza, la loro autorità.

Egli alluse delicatamente a doti soprannaturali che si attribuivano al suo antecessore, ma in modo da mostra re

implicitamente che non ci credeva; perché un'acuta sensibilità e percezione naturale, lo tratteneva dal palesare al dottore

le proprie debolezze, con le stesse istintive e delicate cautele con le quali un pazzo sa celare così bene la propria

infermità.

All'arrivo dei puritani, essi avevano trovato fra gli Indiani un ragazzo, in parte del loro sangue, capace, seppure

imperfettamente, di parlare la loro lingua - ne aveva, per lo meno, qualche ricordo - e che appariva l'erede di una parte

dell'influenza paterna sulla tribù nella quale il padre lo aveva innestato. Era ben naturale che dedicassero un'attenzione

tutta speciale a questo giovane, facendosi un dovere di dargli un'istruzione religiosa intorno alla fede dei suoi avi e

tentando di utilizzarlo per influire sulla tribù. Così fecero, ma non riuscirono a sottomettere per suo tramite la tribù, ed il

loro successo si limitò a guadagnare il mezzo Indiano, sottraendolo alle abitudini selvagge di quello che era il suo

popolo per parte di madre, e facendo sì che si addattasse parzialmente ma soddisfacentemente a quelle inglesi. Una

tendenza alla civiltà venne fatta emergere nel suo carattere grazie alla loro rigida educazione, o al meno, venne spezzata

la sua selvatica barbarie. Si edificò fra di loro una casa, che aveva parecchio della capanna indigena, senza dubbio,

quanto a stile architettonico, ma che pure era una dimora stabile, e accanto ad essa piantò un campo di grano, un orto di

zucche, un appezzamento di meloni e divenne agricoltore al punto di poter chiedere la mano di una donzella puritana. Lì

spese la vita, con qualche ricaduta temporanea nella selvatica barbarie, come quando finì nel fiume Musquehannah o nel

Walden o si sperse nei boschi, mentre avrebbe dovuto badare a piantare o a zappare; ma, nel complesso, la razza era

stata, nella sua persona, redenta dalla barbarie, e le generazioni successive furono sempre più addomesticate. La

seconda generazione si era distinta nelle guerre indiane delle province, legandosi poi per matrimonio alla famiglia d'un

celebre teologo puritano, sicché Settimio poteva annoverare tra i suoi avi da un lato uomini e dotti, studiosi della

vecchia Cambridge, mentre dall'altro lato si spingeva ai primi immigranti, che dovevano essere stati uomini di tempra

notevole, nonché a quel lignaggio strano e barbarico di capi indiani il cui sangue era come di gente non del tutto umana

mescolato a sangue civile.

«Mi domando» disse il vecchio dottore, tutto cogitabondo, «se esistono documenti che stabiliscono la data in

cui arrivò quel primo antico emigrante e da quale famiglia egli provenisse. Spesso quando in Inghilterra si spegne

l'erede ultimo di qualche nome ris pettabile diciamo che la famiglia si è estinta, mentre è ben possibile che essa fiorisca

in pieno nel nuovo mondo, ravvivata, invece che indebolita dalla ricca infusione di nuovo sangue sulla nuova terra, fatta

più greve, più stolta di anno in anno a furia di restarsene attaccata ad una terra vecchia, di contrarre matrimoni sempre

con le medesime famiglie rispettabili, fino a radunarne in fascio tutti i vizi, le debolezze, le foglie. Non avete dei

documenti, un atto notarile?».

«No» disse Settimio. «Mobilia vecchia, scrivanie, banchi, credenze, stipetti?»

«Dovreste ricordare» disse Settimio, «che il mio antenato indiano non aveva probabilmente portato con sé

dalla foresta troppe cose del genere. Un Indiano nomade non si trascina dietro una cassa di documenti. Ricordo.41

nell'infanzia una vecchia cassetta rinforzata con ferro, un cofanetto di cui s'era smarrita la chiave e che zia Keziah

sosteneva ci fosse pervenuta dal suo trisavolo. Non so che cosa ne sia successo; la povera zia lo teneva fra i suoi tesori».

«Bene, amico mio, cercate quel vecchio cofanetto e, così, per curiosità, fatemene vedere il contenuto».

«Ho altro da fare» disse Settimio.

«Forse» disse il dottore, «ma niente di altrettanto importante. Vi dirò con tutta franchezza: l'erede d'una grande

famiglia inglese è morto di recente ed il fondo è a disposizione di qualunque pretendente che abbia titoli validi o magari

anche soltanto plausibili. Se risultasse dagli archivi di famiglia che, come ho ragione di credere, un suo membro, il

quale adesso rappresenterebbe il ramo più antico, sparì misteriosamente ed inspiegabilmente ad una data corrispondente

a quella appurabile della prima comparsa del vostro antenato in questo paese, se gli eredi di quel capo bianco, di quello

stregone indigeno o come diavolo lo volete chiamare, potessero produrre una qualsiasi prova ragionevole per di

mostrare che egli era l'inglese scomparso, si potrebbe promuovere un buon processo. Non vi interessa un pochino il

progetto?».

«Ben poco, devo confessarvi» disse Settimio.

«Ben poco!» disse il cupo dottore, spazientito. «Ma non v'accorgete che se riuscite a convalidare la pretesa,

potete inserirvi nell'aristocrazia inglese, diventando l'erede di un feudo britannico, di un antico castello dove i vostri

antenati avrebbero dimo rato fin dai tempi del Conquistatore: splendidi giardini, boschi e parchi eredi tari, di fronte ai

quali è miserando tutto ciò che l'America possa offrire, il tutto coltivato e ornato con la cura e l'abilità dei secoli; inoltre

un'entrata, una sola mesata della quale formerebbe un patrimonio più grande di quanto abbia mai potuto accumulare

qualunque dei vostri antenati americani a furia di sarchiare e racimolare per tutta una vita, con fatica e penuria e con il

sacrificio dell'anima e del corpo?».

«Resta ancora in me quella parte di sangue indiano» disse Settimio, «che mi porta a disprezzare - no, non

disprezzare perché so che per altre persone è cosa desiderabile - ma mi porta a respingere per me stesso ciò che voi

ritenete tanto prezioso. Non ho interesse per queste mete comuni. Ho ambizione, sì, ma di premi che gli altri non

possono ottenere e neppure aspirare ad avere. Non potrei vivere seguendo le abitudini inglesi, quali me le immagino e

non vorrei portare il peso della grande proprietà di cui mi parlate. Potrebbe convenirmi per un periodo di tempo. Magari

potrebbe perfino divertirmi provare a vivere a quel modo, ed in cento altri, ma solo per un periodo di tempo. Non ha

un'importanza assoluta e definitiva».

«Vi dirò io che cos'è, giovanotto» disse il dottore, stizzosamente, «voi avete qualcosa in mente che vi fa parlare

scioccamente e ne sospetto anche il motivo, eppure non riesco a credere che una persona veramente dotata di buon

senso per certi aspetti, sia un tal citrullo in questo caso».

Settimio arrossì ma rimase tranquillo e la conversazione languì; il dottore cupamente fumava la pipa e le

frequenti bevute dalla bottiglia nera non accrescevano certamente la dolcezza delle sue maniere, finché Setti mio fece

capire che gli sarebbe piaciuto andare a dormire. Fu convocata la vecchia fantesca, la quale lo condusse alla sua camera.

A colazione il dottore riprese l'argomento che sembrava considerare il più importante fra quelli toccati durante

la conversazione del giorno innanzi.

«Mio giovane amico» disse, «vi consiglio di cercare nella cantina e nel solaio, o dovechessia, codesto cofano

ferrato! Forse dentro non c'è niente, magari è pieno di lettere d'amore o vecchi sermoni o ricevute di cento anni fa ma

potrebbe anche contenere ciò che vi procurerebbe un fondo da cinquemila sterline l'anno. Peccato sia andata all'altro

mondo quella vecchia dal decotto maledetto. Ve lo dico io, cercate il documento!».

«Bene, bene» disse Settimio sovrapensiero, «quando troverò il tempo».

Così dicendo si congedò e riprese il cammino verso casa. Non era più lui da quando era partito e gli pareva

d'essere vissuto e d'aver viaggiato, da allora, per uno spazio di tempo infinito, e non s'immaginava nemmeno di poter

mai fare ritorno. Ma adesso ad ogni passo desolatamente rientrava un poco di più nel vecchio paese incantato. La bruma

si levò, l'arcobaleno nebbioso delle spettrali promesse si incurvò dinanzi a lui e così il povero ragazzo ritornò dal mondo

degli sforzi reali alla terra dei sogni e delle imprese fantomatiche.

«Come ho fatto a tradire così le mie convinzioni» disse, «donde viene la disperazione fosca e torva che mi ha

aduggiato finora? Come ho potuto permettere allo spirito beffardo che sentivo in quello scettico brutale e cotto

dall'acquavite, di acquistare una tale influenza su di me? Che si rimpinzi pure la pancia! Non riuscirà a farmi desistere

dal mio proposito con l'esca d'un fondo e d'un casato fra quei ghiottoni d'Inglesi ai quali è fratello. Il mio è un destino

che i re potrebbero invidiare e sforzarsi invano di ottenere a prezzo di principati e reami».

Così in quell'ultima parte del viaggio camminò, si può dire, a un centimetro da terra e invece di stancarsi di

venne più brioso durante gli ultimi chilometri che lo separavano dalla casa sul margine dello stradone.

Ora Settimio sedette ai suoi esperimenti ed alle sue ricerche per preparare la medicina secondo le prescrizioni

enigmatiche della ricetta. Non sembrava possibile arrivarci, tanti contrattempi e disappunti gli si parava no innanzi.

Nessuno sforzo riusciva a produrre una combinazione rispondente alla descrizione contenuta nella ricetta, la quale

parlava di un liquido brillante e dorato, diafano come l'aria, d'una fragranza tutta speciale e inoltre, prova più specifica

ancora della bontà della mistura, una sensazione di freddo, un gelo particolarissimo, rinfrescante e corroborante.

Con tutti i suoi tentativi produceva nient'altro che risultati torbidi o di un colore difettoso, sempre privi della

fragranza e del freddo che erano la prova della genuinità. Studiò tutti i libri di chimica che a quel tempo ci si potesse

procurare, un tempo in cui essa era ben diversa da quel che è diventata oggi e quando in patria Settimio non poteva

procurarsi istruzioni migliori di quelle oscure, ciarlatanesche impartitegli dal dottor Porstoaken. Così egli sembrava via

via scoprire da solo la scienza che doveva applicare..42

Pareva che facesse tutto quanto era suggerito dalla ricetta eppure non ne veniva risultato alcuno, il liquido da

lui prodotto era d'odore nauseante, e quanto al gusto, provava una tremenda ripugnanza ad assaggiarlo tant'era torbido e

sgradevole, da ricordargli per molti versi l'elisir della povera zia Keziah, ed era inoltre un corpo senz'anima, un corpo

morto. Le cose continuarono a questo modo ed il povero Settimio mezzo impazzito cominciò a pensare che la vita

immortale fosse preservata soltanto dallo sforzo di cercarla, si dovesse cioè spendere nella ricerca stessa, e che perciò

dovesse essere una perpetua trafila di disgraziati fallimenti. Compulsava il documento che s'era impossessato di lui,

esaminandone per il diritto e per il rovescio i significati contorti, procurando di cavarne una nuova luce, spesso

provando la tentazione di buttarlo nel fuoco che alimentava sotto la storta, rinunciando a tutto; ma poi, riavendosi tosto

dal cupo abisso di disperazione, ridiventava deciso a ciò che aveva tanto a lungo tentato invano. Talmente intensa era

l'attività mentale che egli applicava al documento che è da meravigliarsi se non venne spiritualmente distillato, se la sua

essenza non si innalzò, purificata da ogni mischianza di falsità, liberata da ogni torbidezza, oscurità e ambiguità per

formare una pura sostanza di verità e di energia. In quest'intervallo la tradizione vuole che Settimio trovasse molti

mirabili segreti quasi di là dai limiti della scienza. Si disse che la zia Keziah giungesse con un pezzo di carbone ardente

tolto a fornaci ignote ad accendergli il suo apparecchio di distillazione, si disse altresl che lo spettro del vecchio signore

inglese la cui sagacia aveva proposto questo enigma ai suoi discendenti, fosse solito venire a mezzanotte per tentar di

spiegargli il manoscritto; che anche l'Uomo Nero gli andasse incontro sulla vetta del colle, promettendogli una

immediata liberazione da ogni difficoltà a patto che s'inginocchiasse ad adorarlo, mettendo la firma sul suo libro, un

volumone antico, con borchie e fermagli di ferro, consumato dall'uso. L'Uomo Nero se l'era cavato dalle tasche

profonde mostrando a Settimio le firme di molti uomini il cui nome è passato alla storia e sulle cui ceneri monta la

guardia un'iscrizione testimoniante delle loro virtù e della loro devozione; vecchi autografi, poiché l'Uomo Nero è

l'originario collezionista d'autografi.

Ma queste senza dubbio erano storie sciocche, concepite e propalate nell'angolo del focolare al tempo in cui

c'erano ancora camini e angoli del focolare e cappe intasate dalla fuliggine. Non c'era ombra di verità in tutto ciò, ne

sono sicuro; l'Uomo Nero aveva cambiato tattica e sapeva far di meglio che allettare l'anima umana con quel suo stantio

album d'autografi. Così Settimio lottò da solo con la sua difficoltà, come prima di lui hanno fatto tanti principianti della

scienza ed ai suoi tentativi sono attribuiti popolarmente molti beveraggi d'erbe e certo genere di birra fatta con foglie e

ramoscelli d'abete, e pozioni per il reumatismo, il mal di gola e la febbre tifoide; ma, per conto mio, essi provengono

tutti dalla zia Keziah o forse, come tutte le facezie al pievano Arlotto, così ogni specie di medicine da Dulcamara che si

presentino nella comunità vengono attribuite a lui o a lei. La gente ha un po' equivocato sul carattere e sui proponimenti

del povero Settimio, ricordandolo come Dulcamara, invece che come ricercatore non meno alto e nobile per essere

inattingibile.

Non so per qual tramite o mezzo, ma certo si diffuse la voce che Settimio fosse impegnato in un'opera

misteriosa e invero la sua solitudine, la sua concentrazione, la sua indifferenza a tutto ciò che accadeva durante quello

spossante periodo di guerra, sembravano abbastanza strane e dimostravano che egli doveva essere assorto in qualche

faccenda di grande importanza. Nelle scarse occasioni in cui usciva dai luoghi che frequentava di norma per scendere in

paese, mostrava un aspetto strano, da gufo, spettinato, arruffato, la chioma lunga e aggrovigliata, la faccia, così si

diceva, annerita dal fumo, le guance pallide, il solco della fronte più profondo che mai, lo sguardo intenso, feroce,

scontento; attraversava frettolosamente la strada del paese, come se tutti dovessero indovinare ciò che gli si agitava

nella mente sol tanto a vederlo, svoltando per straducole laterali appena possibile, inoltrandosi per grandi distanze

dentro a boschi e campi, piuttosto di prendere scorciatoie che rasentassero le dimore degli uomini. Infatti evitava lo

sguardo del suo prossimo, forse perché non lo considerava tale, procurava di ritirarsi dal vincolo e dal destino comune,

sentendo, oltretutto, che gli altri uomini l'avrebbero considerato un traditore, un nemico, un di sertore dalla causa

comune, che aveva tentato di sottrarre la sua fragile spalla al carico della morte imposto a tutti, cui se uno solo fosse

sfuggito, ciascuno avrebbe sentito proporzionalmente più pesante il fardello. Con quegli esseri d'un istante egli non

aveva più una causa comune da condividere; dovevano prendere vie diverse anche se all'apparenza uguali: loro il

cammino battuto, ampio e polveroso che pareva sempre gremito e dal qua le continuamente e misteriosamente

svanivano nell'invisibile, senza che nessuno sapesse né a lungo si domandasse che cosa ne fosse; lui il suo viottolo

solitario, per il quale incedere sicuro, senza alcuna preoccupazione all'infuori della solitudine, che per lui non era

preoccupante affatto. Per qualche tempo sarebbe sembrato che egli stesse in loro compagnia, ma tosto a uno a uno tutti

loro sarebbero caduti: il sacerdote, i soliti amici compaesani, Robert Hagburn, Rose, Sibyl Dacy, lasciandolo in un

meraviglioso incognito, libero di istituire nuovi rapporti temporanei, e di incominciare una nuova epoca.

Talvolta però la prospettiva lo agghiacciava. Poteva davvero rinunciare a tutti, alla soave sorella, all'amico

d'infanzia, all'austero maestro della sua giovinezza, ai volti domestici e conosciuti da tutta una vita? C'erano invero delle

possibilità così ricche per l'avvenire: egli avrebbe cercato le più nobili menti, i cuori più profondi d'ogni epoca, sarebbe

stato l'amico dell'umana precarietà. Eppure sarebbe stato bello avere un solo immutevole compagno, infilare le perle e i

diamanti della vita sul filo di un unico affetto ininterrotto; perché così gli accadeva spesso di pensare: nulla avrebbe

meglio con ferito unità e identità alla vita, e altrimenti la più lunga esistenza sarebbe stata soltanto un aggregato di

frammenti isolati senza rapporto l'uno con l'altro. E così non sarebbe stata una vita sola, ma una sequela di molte vite

sconnesse. Se non doveva posare lo sguardo tutte le mattine dell'avvenire sugli stessi occhi che si sarebbero aperti a

benedirlo con il fresco bagliore della vita e della gioia, se la stessa dolce voce non doveva fondere in uno i suoi pensieri,

se l'affinità d'una vita fianco a fianco non li poteva contessere in modo tale che guardassero indietro agli stessi

avvenimenti e spingessero lo sguardo verso cose comuni a entrambi, il lungo, esile filo della vita individuale,.43

tendendosi sempre di più, avrebbe smesso di farsi sentire, avrebbe cessato di essere visibile, di avere una vera e propria

consistenza, data la lunghezza, diventando a rigore inesistente, salvo per il mero e trascurabile momento presente. Se

vice versa un gruppo di selezionati amici, scelti nell'ambito del mondo intero in ragione della loro affinità, poteva

continuare a vivere indefinitamente insieme, infondendosi calore l'uno all'altro sul loro cammino alto e desolato, allora

nessuno di loro avrebbe più dovuto sospirare il miserabile conforto della tomba.

Se un'anima particolare poteva essergli compagna, allora come sarebbero stati perfetti la difesa formata dalle

braccia dell'altro, il calore del petto premuto sul petto! Oh se quell'anima ci fosse! O Sibyl Dacy!

Forse non era possibile. Chi se non lui poteva affrontare la grande prova e le asperità e l'abnegazione e

l'irremovibile risolutezza, senza ondeggiamenti, senza mai venir meno neanche un istante, sempre tenendosi aggrappato

alla vita come chi con forza tenga a galla un amico sul punto d'annegare? Come poteva farcela una donna ?

Doveva dunque abbandonare l'idea. C'era da fare una scelta: l'amicizia, l'amore d'una donna oppure la lunga

vita dell'immortalità e c'era qualcosa di eroico e nobilitante nell'optare per quest'ultima. Così passeggiò con la

misteriosa donzella sulla vetta del colle sedendole accanto sulla tomba che ancora rosseggiava, con portentosa bellezza,

di quel fiore innaturale, e discorrevano fra di loro e Settimio contemplava la bellezza lugubre di lei spesso

ripetendosi«Tutto ciò sarà travolto dal tempo, ella non è capace di ciò che io sto per compiere; è una donna, e ci vuole

uno spirito maschio, ardito, energico, e ben ricco di queste tre qualità per avere la forza di vivere! C'è una così oscura

simpatia fra noi, ella mi conosce così bene che quasi potrei pensare di avere in lei una compagna. O forse questo è

prematuro. Dopo secoli e secoli forse potrò averne bisogno, adesso no».

Ma una volta disse a Sibyl Dacy: «Ah, come sarebbe dolce, almeno per me, se questo nostro rapporto potesse

durare per sempre».

«Codesta è un'idea orrenda» disse Sibyl con un brivido quasi impercettibile, involontario; «sempre su questa

vetta, sempre passando e ripassando davanti a questo tumulo, sempre odorando questi fiori! Io guarderei sempre il solco

profondo della vostra fronte e voi vedreste sempre la mia gota esangue! E così avanti finché crollerebbero questi alberi

e forse crescerebbe una nuova foresta dovunque la razza bianca ha steso le sue piantagioni e una stirpe di selvaggi

occuperebbe di nuovo la terra. A me non garberebbe. La mia missione quaggiù è di breve durata, appena sarà compiuta

me ne andrò».

«Voi non valutate adeguatamente le varie maniere di passare questo lungo tempo» disse Settimio,

«scopriremmo mille modi di usufruire del mondo, con utilizzazioni e godimenti che gli uomini adesso non si sognano

nemmeno, perché appena il mondo si offre alle loro labbra, subito viene strappato via, prima che abbiano potuto

assaggiarne, e così non possono abituarsi a questo delizioso gran frutto del mondo. Ma parlate di una missione, come se

adesso la steste svolgendo. Non volete rivelarmela?».

«No» disse Sibyl Darcy, sorridendogli. «Ma un giorno lo saprete, nessuno meglio e prima di voi. Questo ve lo

prometto».

«Siamo amici?» domandò Settimio, che lo sguardo di lei rendeva un po' perplesso.

«Un rapporto assai intimo ci unisce» rispose Sibyl.

«Di qual natura?» domandò Settimio. «Questo sarà chiaro più avanti» rispose Sibyl, nuovamente sorridendogli.

Egli non sapeva che cosa pensarne, se essere esultante o depresso; comunque sembrava esserci una

concordanza, un incontro, un contatto vicendevole delle loro nature, come se in qualche modo stessero eseguendo la

stessa parte di una musica solenne, sicché egli senti l'anima esultare e rabbrividire tutt'insieme. Una certa simpatia c'era

di sicuro, ma non avrebbe saputo dire di quale natura, benché spesso sentisse affiorare in sé la stessa domanda che

aveva rivolto a Sybil: «Siamo amici?», causa una scossa improvvisa, una repulsione che si produceva tra loro e subito

dileguava, ed ecco di nuovo Sybil sorridergli obliquamente.

E tornava a faticare ai suoi esperimenti chimici; cercava di mischiare armoniosamente cose che all'apparenza

non erano nate per mischiarsi, scoprendo una scienza di cui era l'unico beneficiario, costellata di assurdità che altri

chimici da tempo avevano rigettato; ma sempre si riproduceva quel risultato, quel torbido aspetto, quella mancanza di

aroma, e non era mai raggiunta la temperatura particolare che avrebbe dovuto comprovare la buona riuscita. Sempre

daccapo egli esponeva il recipiente di cristallo al sole e ve lo lasciava riposare per il tempo prescritto, sperando

coagulasse in modo da produrre il risultato voluto.

Un giorno capitò che i suoi occhi si posassero sulla chiavetta d'argento che aveva tolto dal petto del giovane

caduto, e pensò tra sé e sé che questo poteva avere un qualche rapporto con il successo all'apparenza irraggiungibile

dei`suoi esperimenti. Ricordò per la prima volta le enfatiche ingiunzioni del torvo medico, di ricercare il cofanetto coi

rinforzi di ferro del quale aveva parlato e che gli era pervenuto così carico di leggende: per esempio, si diceva che

contenesse il patto stipulato dal diavolo con suo trisnonno, patto ora cancellato dalla perdita dell'anima di costui; che

contenesse la chiave d'oro del paradiso; che fosse pieno di antiche monete o delle foglie secche di cento anni prima; che

vi fosse rinchiuso un demone familiare che sarebbe stato esorcizzato girando il chiavistello ma altrimenti vi sarebbe

rimasto prigioniero fino all'infracidirsi della solida quercia del cofanetto, all'arrugginirsi e polverizzarsi del ferro che lo

cingeva; sicché tra la paura e la perdita della chiave la curiosa cassetta era rimasta serrata e infine era andata smarrita

essa stessa.

Ma ora Settimio, combinando insieme le parole di zia Keziah morente con le insistenze del dottor Portsoaken,

giunse repentinamente alla conclusione che il possesso del vecchio cofano potesse essere per lui di suprema importanza.

Così si mise subito a pensare dove l'avesse visto l'ultima volta. Zia Keziah, certo, l'aveva riposto in qualche luogo

sicuro, cantina o soffitta senza dubbio; e Settimio, negli intervalli delle altre sue occupazioni dedicò diversi giorni a.44

questa ricerca, e per non tediare il lettore con i particolari della caccia al cofanetto, basti dire che alla fine lo trovò, tra

varie altre anticaglie, in un angolo della soffitta.

Era un vecchio oggetto pieno di ruggine, non più lungo di una spanna per mezza spanna di altezza e di

larghezza, ma cerchiato pesantissimamente con sbarre e angoli parimenti di ferro, e ogni sorta di altri rinforzi;

somigliava molto a una vecchia cassetta per le elemosine di quelle che si vedono ancora nelle più antiche chiese rurali

d'Inghilterra e che sembrano proclamare un'assoluta sfiducia in coloro ai quali le offerte sono affidate. In realtà, si

poteva nutrire un sottile sospetto che qual che sagrestano, uno dei progenitori di Settimio, emigrando dall'Inghilterra,

avesse colto l'occasione per portarsi dietro la cassetta delle elemosine. Guardando bene, c'erano anche rosse decorazioni

sul coperchio e sui fianchi del cofano in un acciaio da lungo arrugginito, del tipo così frequente nel Medio Evo: una

raffigurazione di Adamo ed Eva o di Satana con un'anima, nessuno avrebbe saputo precisare meglio; comunque sia,

un'illustrazione di gran pregio e interesse. Settimio guardò quella vecchia scatola brutta, rugginosa, pesante, così

consunta e sbattuta dal tempo, e rammentò con un sorriso sprezzante le leggende di cui era oggetto, e che egli irrideva e

sdegnava tutte almeno quanto quelle storie delle «Mille e una notte» dove un demone emerge da un vaso di rame in una

nube di fumo che copre la spiaggia del mare; era infatti singolarmente invulnerabile da tutte le forme di superstizione,

da ogni insensatezza, salvo la propria. Ma quell'unica era robusta e attivissima in lui sempre. Era fortemente persuaso

che dentro alla vecchia scatola ci fosse qualcosa che apparteneva al suo destino; la chiave presa al petto del moribondo

gli era pervenuta attraverso i tempi e il mare, la vittima era morta per portargliela e consegnargliela, e tutto questo era

avvenuto per niente? Non poteva essere.

Guardò alla vecchia, arrugginita e complicata serra tura del piccolo ricettacolo. Era circondata di ornamenti in

quel che in antico era stato un acciaio polito e una volta lucidato, e una volta nuovamente rilucente questo acciaio da cui

era serrata, difesa e istoriata, avrebbe potuto figurare su qualsiasi stipo; adesso tuttavia il rovere era mangiato dai vermi

come una vecchia cassa da morto e la ruggine del ferro si staccava tingendo di rosso le dita di Settimio allorché egli vi

armeggiava attorno. Guardò la strana vecchia chiave d'argento e immaginò di scoprire nella sua impugnatura elaborata

una qualche somiglianza con gli ornamenti della scatola; comechessia decise che quella era la chiave del destino e stava

introducendola nella toppa quando qualcuno bussò alla porta della camera e dopo aver aperto quella di casa entrò con

passo virile. Dentro di sé imprecando, come sono solito gli uomini solitari allorché vengono interrotti nelle loro

occupazioni e specie quando lo sono al momento critico nell'esecuzione d'un piano, lasciò la scatola come si trovava e

disse: «Avanti».

La porta si aprì ed entrò Robert Hagburn, d'aspetto così slanciato e solenne che Settimio quasi non riconobbe il

giovanotto col quale era cresciuto in tanta familiarità. Indossava l'abito rivoluzionario scamosciato e azzurro con

decorazioni che all'occhio dell'iniziato lo mostravano ufficiale e dallo sguardo e dalle maniere spirava un'autorevolezza

che dimostrava sicuramente come le pesanti responsabilità ed i momenti critici l'avessero educato, mutando il

contadinello in un uomo.

«Sei tu?» esclamò Settimio. «Neanche ti riconoscevo. Come ti ha cambiato, la guerra!».

«Anch'io potrei domandarti: sei tu, dunque? Perché anche tu sei similmente cambiato, amico mio. Lo studio ti

consuma terribilmente. Di questo passo diventerai un vecchio, prima di renderti conto d'essere giovane. Ti ammazzerai,

corpo d'un fucile!».

«Credi davvero?» disse Settimio, un poco sbalordito, colpito dall'assurda stranezza della situazione che si

sarebbe prodotta se egli si fosse esaurito e consumato fino a morirne proprio al momento in cui avrebbe dovuto scoprire

il segreto della vita perpetua. «No, benché io sembri pallido, sono molto robusto. A giudicare dalla ferita che ti scende

dalla tempia, sei stato assai più vicino alla morte di quanto tu non creda che lo sia io adesso, benché in modo diverso».

«Sì» disse Robert Hagburn; «ma quando si lotta a sangue caldo per una buona causa, chi si cura più della

morte? Eppure amo la vita più di nessun altro finché dura e amo tutti i suoi aspetti e le sue mutazioni e le sorprese, tante

cose se ne possono ricavare, nonostante quel che ne dice la gente. La gioventù è soave nella sua focosa intraprendenza e

suppongo che la maturità lo sarà altrettanto, benché in modo più tranquillo, e la vecchiaia, ancor più tranquilla, avrà

anch'essa i suoi vantaggi. Basta far della vita quel che il dovere comanda e ciò che è pertinente a ciascuna delle sue fasi:

adempiere tutto, godere di ogni cosa: le due norme credo che facciano tutt'uno. Basta tenere in pugno seriamente la vita,

senza giocarci attorno, e non differirne una parte a pro' d'un'altra, e ogni sua parte e fase ci darà il particolare bene che le

è connaturato. La gente parla delle asprezze del servizio militare, delle tribolazioni che dobbiamo sopportare

combattendo per la patria. Ebbene, credo di aver fatto la mia parte, con dure fatiche nelle terre più selvagge, patendo la

fame, l'estrema spossatezza, i freddi pungenti, la tortura d'una ferita, il pericolo di morte e attraverso a tutto questo sono

stato felice come mai lo ero stato al comodo foco lare di mia madre le sere d'inverno. Se ci fossi morto, sono sicuro che

i miei ultimi istanti sarebbero stati felici. Non c'è altro scopo nella vita se non scoprire che cosa ci conviene fare, e, se si

fa, poco importa a parere mio se ne viviamo o ne moriamo. Dio non vuole la nostra opera ma solo la nostra volontà di

operare; o almeno, quest'ultima sembra rispondere a tutti i suoi fini».

«Codesta è una filosofia assai comoda» disse Settimio con un certo disprezzo ma tuttavia con invidia. «Di dove

l'hai presa, Robert?».

«Dove? Da nessuna parte, mi si formò durante le marce e benché non possa affermare di averci pensato mentre

le pallottole mi grandinavano intorno sulla neve, in quelle strette vie di Quebec, pure son convinto di averla avuta in

mente fin da allora; perché, come ti dico, mi sentivo felice e contento. E tu, Settimio? Non ho mai visto un tipo così

insoddisfatto, così palesemente in felice. La vita è più dura per te in pace, che per me in guerra. Tu non hai trovato quel

che cercavi, qualunque cosa sia. Dà retta a me. Buttati nel primo lavoro che ti si offra. In guerra c'è posto per tutti -.45

dovremmo esserne grati - noi, la più allegra fra tutte le generazioni, le passate come le future - giacché la Provvidenza ci

propone un'opera così bella per cui vivere o una così eccellente occasione per morire. Vale la pena di vivere solo per

aver la fortuna di morire così bene come si muore oggigiorno. Su, diventa soldato. Fa il cappellano, visto che hai

ricevuto l'educazione adatta, e scoprirai che in pace nessuno prega così bene come noialtri sol dati; e non ti verrà

neppure sottratta l'occasione di batterti: se la guerra è un'opera santa, anche un prete può con pieno diritto cooperarvi,

oltre a pregare per il suo esito favorevole. Su, vieni con noi, mio vecchio Setti mio, sii il mio camerata e, che tu viva o

muoia, mi ringrazierai di averti tolto dalla biliosa desolazione nella quale ti trascini, senza vivere né morire».

Settimio guardò con sorpresa Robert Hagburn; tanto lo vedeva mutato e migliorato da quella breve esperienza

di guerra, di avventura e di responsabilità per la quale era passato. Oltre all'effetto che essa aveva prodotto su quel suo

zotico fare, su quel suo rustico porta mento, sviluppandolo, facendolo sembrare più alto, liberando le grazie virili celate

in quella sua goffa figura di un tempo, era notevole anche l'effetto che aveva prodotto sulla sua mente e sulla sua

struttura morale, con ferendo una libertà di idee, una semplice percezione dei grandi pensieri, una sciolta e naturale

cavalleria; sicché il paladino, il guerriero omerico pareva qui presente, o almeno sembrava reso possibile nella persona

del giovane contadino della Nuova Inghilterra; e tutto ciò che la storia ha potuto dare, tutto ciò per cui i cuori hanno

tremato, sospirato e onde si sono gloriati, il patriottismo e gli eroici sensi e le azioni, poteva forse reincarnarsi nella vita

e morte di questo suo amico e compagno di giochi che egli non aveva mai altamente stimato: Robert Hagburn. Questi si

era limitato a ubbidire al suo cuore in tutta spontaneità, con coraggio e dedizione assoluta, compiendo la prima buona

azione che gli si presentava, ed eccoti: un eroe.

«Quasi ti fai invidiare, Robert» egli disse, sospirando.

«E allora perché non vieni con me?» domandò Robert.

«Perché ho un altro destino» disse Settimio.

«Ebbene, hai torto, puoi starne certo», disse Robert. «Questa non è una generazione destinata agli studi e alla

compilazione di libri: queste sono cose del futuro, semmai. La grande lotta presente ha bisogno di tutti, di chi in un

modo e di chi in un altro e nessuno potrà illudersi di comportarsi rettamente, anche nei confronti di se medesimo, se

tenterà di non fare la propria parte. Ma quel che avevo da dire l'ho detto. Settimio, la guerra sottrae parecchio all'uomo,

ma non lo assorbe interamente e ciò che gli lascia è tanto più pregnante di vita e di salute. Ho qualcosa da dirti in

proposito».

«Dillo dunque, Robert» rispose Settimio, il quale, riavutosi dall'iniziale sconcerto prodottogli dall'incontro e

dalla specie di ebbrezza infusa dal sano calore del lo spirito di Robert, cominciò a sperare segretamente che la facesse

finita per poter tornare ai suoi pensieri solitari. «Che cosa posso fare per te?».

«Ma niente» disse Robert, con aria un po' confusa, «visto che tutto è già deciso e concluso. Il fatto è, amico

mio, che come forse ti sarai accorto, da tempo ho messo l'occhio su tua sorella Rose; sì, fin dai tempi che s'andava

insieme alla vecchia scuola, dove adesso ella insegna a bambini simili a come eravamo noi allora. La guerra mi portò

via, e venne a proposito; dubito infatti che Rose mi avrebbe voluto tanto bene da diventare mia moglie se fossi rimasto a

casa, uno zotico quale stavo diventando, in maniche di camicia e a piedi nudi. Ma, come vedi, eccomi qua: per il suo

cuore di donna io rappresento tutta questa gran guerra, che mi rende per così dire, eroico e strano e nello stesso tempo,

resto pur sempre il suo innamorato d'una volta. Così scopro che il suo cuore è diventato più tenero nei miei confronti e,

per farla breve, Rose ha acconsentito a diventare mia moglie e vogliamo sposarci fra una settimana, la licenza non mi

consente troppi indugi».

«Mi sorprende» disse Settimio, il quale, immerso nelle sue occupazioni, non aveva fatto caso al nascente

affetto tra Robert e la sorella. «Ti sembra bene approfittare di questa breve pausa che ti è concessa nel folle tumulto

della guerra per metter su una pacifica casa? Ti sarà gradevole esserne fra poco strappato? Sarai altrettanto allegro fra i

pericoli anche dopo, allorché una sola spada potrebbe stroncare due felicità d'un sol colpo?».

«C'è del vero in ciò che dici, e ci ho già pensato» disse Robert sospirando. «Ma non so spiegartelo; c'è qualcosa

in quest'incertezza, in questo pericolo, in questa nube fra noi, che rende soave amare e sentirsi riamati ancor più che non

in mezzo alla quiete ed alla serenità. Se non ci fosse la morte, davvero penso che la vita sarebbe completamente insulsa.

Perciò corriamo il rischio, ovvero facciamo la nostra parte nel gioco della Provvidenza, e ci amiamo e ci sposiamo con

la stessa fiducia che avremmo se dovessimo vivere in perpetuo».

«Bene, vecchio mio» disse Settimio, con una cordialità ed una pienezza di cuore che non provava da molto

tempo, «non c'è nessuno che sarei più felice di chiamare fratello. Pigliati Rose e con lei ogni felicità. E una brava

ragazza e non mi somiglia per niente. Che tu pos sa vivere tutti i tuoi lunghissimi anni, ognuno d'essi colmo di felicità».

Poco altro fu detto, e Robert Hagburn si congedò con una cordiale stretta di mano, troppo conscio della sua

felicità per accorgersi di quanto Settimio fosse chiuso in se stesso, stranito, ansioso, rescisso dalla vita e dagl'interessi

più sani; e Settimio, appena sparito Robert, si chiuse dentro e subito trovò la chiave d'argento nella serratura della

vecchia cassaforte.

La serratura resisteva alquanto, essendo arrugginita, come si può bene immaginare dopo tanto tempo che non

era stata aperta, ma finalmente gli riuscì di girare la chiave e di aprire il coperchio. L'interno era d'aspetto ben diverso

dall'esterno perché mentre questo pareva tanto vecchio, quello, rimasto al riparo dall'aria, sembrava nuovo come quando

era stato chiuso a ogni luce circa due secoli prima. Era bordato d'un avorio bellamente intagliato in figure, secondo l'arte

che nel Medioevo si possedeva alla perfezione; la cassa era stata probabilmente il portagioie d'una signora e aveva

sprigionato un bagliore intenso e splendidi colori allorquando era stata aperta in precedenza. Ma adesso dentro non c'era

niente di simile, niente che s'accordasse con quelle figure di soggetto mitologico tagliate nell'avorio, soltanto certi.46

incartamenti al fondo della cassa, vergati con una grafia antica che a Settimio subito parve di riconoscere per la stessa

del manoscritto e della ricetta trovati sul petto del giovane soldato. Li afferrò con impazienza ma rimase infinitamente

deluso a scoprire che non avevano l'aria di riferirsi agli stessi argomenti, e che riguardavano invece genealogie, una

famiglia inglese e un suo membro il quale aveva attraversato l'oceano per trasferirsi in America e, in tal modo, aveva

procurato di mantenere un collegamento con la sua stirpe, serbandone la prova a uso proprio e dei propri discendenti.

Quelle carte rinviavano infatti a documenti e registri inglesi che comprovavano la genealogia. Settimio s'accorse che la

carta era stata compilata da un suo antenato, il poveraccio impiccato per stregoneria; ma tanta era stata la sua aspettativa

di altre e diverse cose che buttò le vecchie carte con amara indifferenza.

Poi le riprese e lesse con disprezzo quelle prove di un'ascendenza da generazioni di signori feudali e di

cavalieri, famosi uomini di guerra; pareva che ci fosse in famiglia anche una tendenza alle lettere essendone tre membri

indicati come insegnanti in collegi di Oxford o di Cambridge; accanto a uno figurava la nota «colui che si vendette a

Satana», mentre un altro appariva seguace di Wickliffe; costoro avevano trucidato re, era no stati decapitati, sbanditi, e

via dicendo; la vita immemoriale dell'antica famiglia non era dunque stata né felice né prospera, benché essa avesse

mantenuto la proprietà del fondo, fin dai tempi della conquista normanna. Non fu senza interesse che Settimio vide di

spiegarglisi questo suo antico lignaggio, questo suo legame con nobili prosapie, questi matrimoni con membri di

famiglie il cui nome egli ricordava dalla storia d'Inghilterra, e tutto pareva confluire in lui, l'ultimo d'un ramo

impoverito che si era andato spegnendo nell'oscurità, nel lavoro agreste e nell'umile fatica, e s'era appena un poco

ravvivato in lui; appena un poco, a meno che non gli riuscisse di attuare il suo strano proposito. Non valeva forse la

pena di rivendicare la sua posizione di erede inglese che gli veniva così strana mente offerta? Aveva ucciso

evidentemente senza saperlo l'unica persona che avrebbe potuto contestare i suoi diritti, il giovane che così stranamente

gli aveva offerto la speranza di una vita illimitata proprio mentre gli dava un posto tra i propri antenati. Che mutamento

vi sarebbe stato nel suo destino! Sembrava che si potessero accampare anche delle pretese su un titolo nobiliare, una

baronia che di quando in quando si profilava nei documenti per poi dileguare.

«Forse» disse Settimio fra sé e sé, «in futuro forse varrà la pena di rivendicare questi miei diritti ad un posto

nei ranghi di un'antica aristocrazia, e così sperimenterò, per lo spazio d'una generazione, questo tenore di vita. Eppure il

mio destino è in certo modo incompatibile con la proprietà continuata d'un fondo. Debbo essere di necessità ramingo

sulla faccia della terra, cambiare residenza a brevi intervalli e sparire all'improvviso; altrimenti la sciocca moltitudine

dalla breve vita, la folla dei mortali, si adirerà contro chi ha l'aspetto d'un fratello ma il cui volto non conoscerà i solchi

dell'età, le cui ginocchia non traballeranno, la cui forza non verrà mai attenuata; la brevità della loro vita verrebbe

svergognata dalla sua permanenza nei secoli, crollerebbe l'architrave di rovere centenario ed egli resterebbe sempre

sano e robusto. La sua casa avrebbe dovuto essere soltanto l'asilo d'un giorno e dopo egli subito avrebbe cercato scampo

in un altro anonimato».

Quasi con rimpianto ritornò a esaminare i documenti finché giunse a una delle persone segnate nella

genealogia, un dotto del regno di Elisabetta cui era attribuito il titolo di dottore utriusque juris e accanto al cui nome era

un verso latino la cui destinazione gli restava inspiegabile, perché, a leggerlo, non si vedeva perché dovesse considerarsi

appropriato; ma improvvisamente ricordò il passo macchiato, imperfetto e geroglifico della ricetta. Ci pensò per lo

spazio di un istante e si convinse che questa era l'espressione dispiegata ed esplicita di quel piccolo mistero contorto,

tipico di quella scrittura segreta in cui al tempo di Elisabetta si era maestri. La sua mente ebbe un'illuminazione

subitanea e da quel momento non soltanto si trovò a poter leggere la ricetta ma le stesse norme e tutto il resto del

documento misterioso, in un modo cui prima non aveva mai pensato, rendendosi conto che non era da prendersi alla

lettera e con semplicità ma celava un meccanismo nascosto che rendeva il testo infinitamente più profondo di quanto

avesse potuto supporre dianzi. Il cervello gli ondeggiava, gli pareva d'aver inghiottito una pozione di un liquore che gli

dischiudeva profondità sconfinate e quasi non poté impedirsi di cacciare un urlo di esultanza trionfale, la casa più non

bastava a contenerlo, si precipitò verso la sua vetta e lì, dopo aver camminato su e giù, si gettò sul tumulo ed esclamò,

come rivolgendosi a colui che là sotto dormiva:

«Fratello, amico mio!» disse, «grazie dell'impareggiabile liberalità che hai mostrato per averti offerto questo

angolino sul mio colle. Sei stato assai buono e generoso. Questo non sarebbe stato un beneficio per te, giovanotto di

gioie focose e di gagliarde passioni, amante delle risate, della lievità, dell'effervescenza brillante; o fratello! So ben io

che ci vuole uno spirito forte, capace di molta resistenza solitaria, sufficiente a se stesso, di amori non eccessivi, non

stretto dai dolci vincoli dell'affetto, per affrontare la potente prova a cui mi accingo. Ti ringrazio, cugino! Eppure tu, lo

sento, hai la parte migliore, tu che così presto conoscesti il riposare, che ti sciogliesti per sempre da questo mondo

agitato il quale sarà mio da contemplare di era in era, sì da trarne la somma e la conclusione ed il significato. Tu ti

diverti in altre sfere. Io godo di adempiere all'ufficio alto, severo e tremendo di vivere quaggiù, ministro della

Provvidenza da un'epoca alle altre, innumerevoli, successive».

Così vaneggiò come mai prima, in una vena d'entusiasmo esaltato, spaziando con sicumera nel vuoto,

fermandosi di quando in quando per gridare e sentendo che sarebbe scoppiato se non l'avesse fatto; i bassi poggi

sull'altro versante della vasta, piatta valle, ed i boschi lontani, gli echeggiarono la voce con tono d'irrisione; era come se

aerei spiriti ben consapevoli di come sarebbero finite le cose, confermassero il suo grido dicendo: «Così sarà»,

«Finalmente l'hai scoperto», «Sei immortale». Ed era come se la natura fosse disposta a celebrare il trionfo che egli

otteneva ai suoi danni, poiché sopra i boschi che coronavano il colle a settentrione, si profilavano saette e rivoli di luce,

un chiarore bianco, rosso e multicolore che avvampava innalzandosi allo zenit, come con un balzo, un tuffo, e poi

nuovamente un balzo in alto, sicché pareva che degli spiriti vi facessero festa. Tutte le foglie degli alberi sul pendio,.47

salvo quelle dei sempreverdi, erano cadute con l'autunno, sic ché Settimio fu visto dai rari passanti, in quel declinante

pomeriggio, andare su e giù sul suo sentiero, gesticolando follemente; lo udirono altresì gridare tanto che gli echi

tornavano da tutte le direzioni a rispondergli.

Al cadere della notte, inoltre, al lume della luna di settembre, fu vista passare un'ombra che agitava le braccia

in fantomatici trionfi; così il giorno dopo parecchie storie si diffusero in lungo e in largo, di bocca in bocca, diventando

a ogni nuova nascita più meraviglio se; la versione più semplice era che Settimio Felton fosse impazzito sulla vetta che

egli tanto amava frequentare e tutti coloro che ascoltarono le sue grida dissero che chiamava il Diavolo; alcuni

affermavano che con certi suoi esorcismi aveva fatto apparire nell'aria cariche di squadroni, bagliori di cannonate,

scontri di campioni; tutto ciò annunciava un prossimo vero combattimento coi nemici della patria e poiché la battaglia

di Monmouth capitò o quel giorno o il successivo, la si ritenne o causata o vaticinata dalle eccentricità di Settimio;

siccome poi essa non fu molto favorevole alle nostre armi, il patriottismo di Settimio ne scapitò parecchio nella

reputazione popolare.

Ma egli non sapeva e non pensava niente e non si curava affatto della patria e delle sue battaglie; era sano di

mente, quanto lo era stato da un anno a questa parte ed era tanto saggio, benché soltanto per istinto, da sfogare il suo

entusiasmo superfluo con quei gesti selvaggi, con folli urla e un'attività incessante; e quando lo ebbe fatto tornò a casa

e, tardi com'era, attizzò il fuoco e riprese i procedimenti chimici, illuminato ormai dai nuovi insegnamenti. Una

presenza nuova gli parve intervenire nelle sue fatiche, aiutandolo a perseguire i suoi fini; qualcosa lo soccorreva e le sue

manipolazioni diventavano agevoli, il suo pensiero s'illimpidì. Così trascorse la notte e quando l'alba fece filtrar la luce

nello studio, la cosa era fatta.

Settimio l'aveva attuata. Cioè era riuscito ad amalgamare i suoi materiali facendo sì che agissero l'uno sull'altro

armoniosamente ed aveva prodotto un risultato che aveva una sussistenza autonoma, ed un proprio di ritto all'esistenza,

qualcosa di potente e sostanzioso, cui ogni ingrediente contribuiva per la sua parte nel formare un'essenza nuova, reale e

individua quanto le par ti che erano andate a formarla. Ma per perfezionarla occorreva che le potenze della natura

quietamente vi agissero per un mese di luce lunare, anche la luna doveva aver la sua parte nella produzione e perciò egli

doveva attendere pazientemente.

Aspettare! Certo che avrebbe aspettato! Avesse dovuto attendere fino alla vecchiaia, non sarebbe stato troppo

per lui: l'avvenire intero l'avrebbe ripagato.

Così versò l'inestimabile liquido in un vaso di vetro a tenuta d'aria e lo espose alla luce del sole, spostandolo

dall'una all'altra finestra via via soleggiata, affinché maturasse, muovendola con cautela per non disturbare lo spirito

vivente che sapeva albergarvi. Lo osservò notte e giorno, ne osservò i riflessi, la luminosità che adesso gli sembrava di

giorno in giorno maggiore, come se si andasse intridendo di luce solare. Mai c'era stata cosa più splendente. Mutava

colore a grado a grado, ora tingendosi d'una ricca porpora, diventando ora cremisina, ora violacea, ora turchina;

attraversava tutti questi colori del prisma senza perdere il lustro e mai si vi de colore come quello che assumeva il sole

attraversandolo e toccando poi terra.

Strano e bello era osservare attraverso un tal tramite il mondo esterno e vedere com'esso ne veniva glorificato e

rinnovellato, e più non sembrava il solito mon do benché fossero presenti tutti gli stessi elementi fa miliari.

Di là dalla finestra, veduto attraverso i vetri, il contadino con la moglie, sulle due selle, che se n'andavano al

convegno religioso o al mercato e perfino il cane, la mucca al ritorno dal pascolo, le vecchie familiari facce della sua

infanzia, avevano un aspetto diverso. Final mente, alla fin del mese, il liquido si fissò in un cremisi profondo e brillante,

come l'essenza del sangue del giovane ch'egli aveva ucciso; il fiore trionfante aveva conferito a tutta la massa la propria

tinta, che era di ventata ogni giorno più fulgente sicché sembrava ave re una luce intrinseca, come un pianeta autonomo,

al cui interno ardesse un cuore di fiamma cremisina.

Avendo fatto tutto ciò, cessato che fu ogni muta mento, ed essendo così dimostrato che la digestione era

perfetta, egli lo mise dove la mutevole luna l'avrebbe colpito; tornò a osservarlo, avvolgendolo nel buio di giorno ed

esponendolo alla luna di notte e così riscontrandovi altre mutazioni. S'accorse poco dopo che il cremisi fondo si andava

stingendo, non si poteva dire che ne recedesse, perché lo splendore prodigioso che ancora lo soffondeva era forte come

sempre, ma certa mente la tinta si estenuò, diventando più leggera, sempre più leggera, finché rimase soltanto la più

pura bianchezza della luna; il mutamento in qualche modo deluse e afflisse Settimio, benché apparisse perfettamente

naturale che l'acqua della vita non avesse un colore solo, dovendoli contenere tutti quanti. Allorché l'assorto giovane

contemplava durante le notti solitarie il suo liquore amatissimo, talvolta immaginava di veder cose mirabili nella sfera

di cristallo formata dal vaso come un tempo se ne vedevano nel cristallo magico del dottor Dee che adesso sta al British

Museum; forse erano rappresentazioni del passato remoto, scene in cui egli stesso doveva agire, gente ancora non nata, i

belli ed i saggi con i quali doveva entrare in rapporto, i palazzi e torri, tipi d'architettura finora non veduta, il vecchio

castello d'Inghilterra cui aveva un diritto ereditario, coi suoi frontoni ed il suo liscio prato; i raduni di streghe cui

prendevano parte i suoi antenati, la zia Keziah sul suo letto di morte e, aleggiante su tutto, l'ombra di Sibyl Dacy,

occhieggiante da recessi segreti o da un suo luogo lontano, la quale con il suo sorriso malizioso gli faceva cenno

d'entrare nella sfera. Tutte queste visioni egli coglieva e infine si rese conto d'essere rimasto immerso in un sogno

indotto dall'eccessivo osservare, dal pensiero troppo intento; così, vivendo fra tanti sogni, quasi temette di svegliarsi da

un sogno ulteriore, per scoprire che il vaso stesso ed il liquido in esso contenuto erano sostanza di sogno. Ma no: erano

ben reali.

Un mutamento lo sorprese, benché senza dubbio l'accettasse e benché esso invero implicasse una meraviglio sa

efficacia o almeno singolarità nel liquido che aveva appena allora subito la metamorfosi. Nell'ultima fase del tempo in.48

cui lo tenne sotto osservazione esso diventò stranamente freddo. Pareva assorbire la sua freddezza dalla fredda, casta

luna, finché sembrò a Settimio più freddo del gelo stesso; il vapore si adunò sul vaso di cri stallo come su un bicchiere

d'acqua gelata in una stanza calda. Alcuni dicono addirittura che si brinò cristallizzandosi in mille forme fantastiche e

belle, ma di questo non sono sicuro. Certamente molto fresco era. Settimio meditò sulla cosa e credette di capire che la

vita stessa era fredda, individuale nel suo essere, essenza alta, pura, raffinata di là da ogni calore; d'un freddo dunque

corroborante.

Ecco quanto sono riuscito a imparare, a furia di riflettere profondamente, con una ricerca penosa, intorno al

liquido che Settimio distillò: al suo aspetto, alle sue proprietà; e adesso eccolo compiuto e perfetto, nulla più resta da

fare a Settimio se non usarlo ai fini in vista dei quali ha tanto a lungo faticato.

Ma a far questo egli sentiva in sé una riluttanza fortissima; sostò un momento al punto dove il suo sentiero si

divideva da quello degli altri uomini, e si domandò se valesse la pena di rinunciare a tutto ciò che la Provvidenza aveva

largito per quell'unico dono della vita immortale. Non che avesse mai avuto dei dubbi in me rito, assolutamente no, ma

era la sua sicurezza e coscienza di tenere in mano l'orbe splendente di tutto il futuro che lo faceva indugiare un poco,

adesso che poteva bere l'immortalità non appena lo volesse. Inoltre, adesso che spingeva lo sguardo di là dal margine

estremo del destino mortale, il sentiero che aveva di fronte gli sembrava ben solitario. Perché non avrebbe dovuto

cercarsi un'unica amicizia, un sol cuore, prima di fare il passo finale? C'era Sibyl Dacy! Quale beatitudine, se quella

pallida fanciulla fosse partita con lui per il suo viaggio! Come sarebbe stato dolce, dolcissimo vagare con lei per i luoghi

altrimenti desolati! Egli non poteva che vedere a metà, conoscere a metà le cose, se ella non l'aiutava. E forse questo

avrebbe potuto essere. Ella già doveva sapere o fortemente sospettare che egli era impegnato in qualche ricerca

profonda, misteriosa; forse lo intuiva grazie alla fonte di conoscenze arcane, le leggende che conosceva così bene.

Allora, quali sogni (di quelli che sempre nutrono gli amanti allorché il loro nuovo amo re fa apparire la vecchia terra un

luogo così felice e glorioso che nemmeno mille, innumerevoli anni la potrebbero esaurire) quali sogni si sarebbero

attuati per lui e per lei! Se questo non avesse potuto avverarsi, che cosa doveva egli fare? Si sarebbe forse avventurato

in un futuro così invernale, simboleggiato forse dalla freddezza della coppa di cristallo? Rabbrividiva soltanto al

pensiero.

Orbene, non si è preservata notizia di quel che accadde tra Settimio e Sibyl Dacy, salvo che un giorno

camminavano insieme sulla vetta del colle, o stavano seduti accanto al tumulo e parlavano intensamente fra loro. La

faccia di Sibyl era soffusa da una certa eccitazione, ella era vezzosa davvero. Il cupo volto di Settimio manifestava un

solenne trionfo che lo rendeva altresì bello; così rapito appariva dopo tutto quell'osservare e quell'estenuarsi e dopo la

vita pura, sovrannaturale, piena d'abnegazione che aveva fatto. Parlavano come se ci fosse una premessa tacita su cui le

parole erano fondate.

«Non ti stancherai mai nel tempo che passeremo insieme?» egli domandò.

«Oh, no» disse Sibyl sorridendo, «sono certa che esso sarà pieno di gioia».

«Sì» disse Settimio, «benché adesso io debba rimodellare le mie anticipazioni, perché finora ho soltanto osato

figurarmi una vita solitaria».

«E come la prevedevi?» domandò Sibyl.

«Invero non vi era nulla che potesse essere sgradito» rispose Settimio, «perché se sono vissuto separato dagli

uomini, non è perché io non abbia il gusto di quanto l'umanità racchiude in sé, ma vorrei, potendo, vivere la vita di tutti

gli uomini nello stesso istante, o, poiché questo non può essere, ciascuna successivamente. Vorrei provare la vita del

potere, governando; ma quello potrebbe venire in seguito, dopo aver accumulato una grande esperienza di uomini ed

essere vissuto per un lungo periodo della storia, e aver visto, da osservatore disinteressato, come gli uomini si possano

meglio influenzare per il loro bene. Dapprima sarei un grande viaggiatore e poi, come chi appena venuto in possesso

d'un fondo lo ripassa palmo a palmo e ne esamina ogni singolo campo e appezzamento boschivo e ognuno dei singoli

tratti, così farò io, essendo mio il mondo, possedendolo io per sempre, laddove gli altri ne sono ospiti temporanei. Così

vagabonderò per questo mio mondo facendo conoscenza di tutti i suoi lidi, mari, fiumi, monti e campi, con le varie

genti che vi abitano e delle quali mi propongo di essere il benefattore; non pensare, infatti, cara Sybil, che io mi ritenga

investito di questo grande destino senza un carico corrispettivo di grandi doveri, gravosi e difficili da eseguire, ma

gloriosi una volta adempiuti. Comunque ci sarà tempo per tutto ciò. Fra un secolo avrò veduto questa terra e ne avrò

conosciuto almeno i confini, me ne sarò imparato almeno le campiture, che potrò completare e riempire in seguito a mio

agio».

«Anch'io» disse Sibyl, «avrò i miei doveri ed i miei travagli, perché mentre tu andrai fra gli uomini, io sarò fra

le donne, osservandole e conversando con tutte, dal la principessa alla servetta, e scoprirò che cosa non va, per qual

motivo una così grande porzione dell'umana miseria gravi sulle loro deboli spalle. Scoprirò come mai, se la donna è una

principessa reale dev'essere sacrificata alla ragion di stato, e se invece è una paesana ugualmente le viene inflitto

qualcosa di inadatto a lei: e se non pesi per caso una qualche mortale maledizione sulla donna, talché non le resti niente

da fare e niente da godere, ma le tocchi rassegnarsi a subire i torti dell'uomo continuando tuttavia ad amarlo e

disprezzandosi perché lo fa, a essere malcerta nella sua vendetta. E poi se, dopo tutta questa indagine, risulta, come

sospetto, che la donna non sia suscettibile d'essere aiutata, che ci sia qualcosa insito in lei che rende senza speranza la

lotta per la sua redenzione, che cosa farò? Davvero non saprei, forse potrei predicare all'intero sesso di uccidere tutte le

bambine non appena vengano alla luce, lasciando poi le generazioni degli uomini a cavarsela come posso no! La donna

è così debole e pazza, talvolta bella, ma piena di infermità, non robusta, con nervi esposti a ogni dolore, malata, piena di

minime debolezze, ancora più spregevoli delle grandi!»..49

«Sarebbe una miserabile fine, Sibyl» disse Settimio. «Ma confido che saremo in grado di mettere facilmente a

tacere questo stanco e perpetuo lamento della femminilità. Ebbene, cara Sibyl, dopo che avremo speso cent'anni

esaminando lo stato reale dell'umanità ed un altro secolo divisando e mettendo in atto dei rimedi ai suoi malanni,

allorché il nostro pensiero, del tutto ma turo, avrà avuto tempo di perfezionare la sua terapia, avremo finalmente un po'

di ricreazione, un secolo di passatempi in cui cercheremo le gioie che persone pensose possano godere, come

quell'infantile divertimento che sorge dalla saggezza crescente, nonché diporti d'ogni specie. Raduneremo attorno a noi

tutto quanto è bello e maestoso, in un grande palazzo, poiché allora avremo una tale esperienza che sapremo

procacciarci facilmente tutte le ricchezze con mobili fastosi dipinti, statue e tutti gli ornamenti regali; e oltre a tenere

questo treno di vita disporremo d'una casetta, per scoprire quale del le due esistenze sia la più felice, poiché di ciò

sempre si è discusso. Durante questo secolo non faticheremo né fileremo, né penseremo a cosa che vada di là della

giornata che trascorre sopra le nostre teste. C'è tempo a sufficienza per fare tutto ciò che dobbiamo».

«Cent'anni di gioco! Non sarà forse noioso?» disse Sibyl.

«Se lo è» disse Settimio, «il secolo seguente vi porrà rimedio perché allora escogiteremo filosofie profonde,

scegliendo una teoria dopo l'altra, scoprendone il vuoto e "inadeguatezza, scartandole come rifiuti, e così avremo

disseminato di frantumi tutto il campo dell'umano pensiero. Poi, su questa montagna di cocci rotti (come quel gran

monte Testaccio che andremo a visitare a Roma), costruiremo un sistema perfettamente fondato, grazie al quale

l'umanità spingerà lo sguardo addentro nelle vie della Provvidenza e troverà una applicazione pratica profondissima per

tutto ciò che s'era creduta mera speculazione. E poi, quando il secolo sarà trascorso, e compiuta questa grande opera, ci

ritroveremo spiritualmente disponibili e ravviseremo la vuotaggine delle nostre stesse teorie, mentre gli uomini ne

vedranno soltanto la verità. E così, se ci garberà ancora questo divertimento, potremo passare allo stesso modo un altro

secolo ed un altro ancora e molti altri a nostro talento».

«E dopo di ciò, un altro periodo di giochi?» domandò Sibyl Dacy.

«Sì» disse Settimio, «ma non si chiamerà così; nel secolo seguente ci faremo nominare padroni della terra e

conoscendo così bene gli uomini, e avendo enucleato la nostra dottrina del buon governo e altro ancora, procederemo

alla sua applicazione, che per noi sarà facile come per un bambino aggiustare i propri fantocci. Faremo un sorriso di

superiorità vedendo che facile cosa sia rendere felice un popolo. Nel nostro regno dei cent'anni avremo tempo di mettere

fine agli errori, dimostrandone al mondo l'assurdità; sostituiremo nuovi metodi di governo a quelli vecchi e cattivi;

metteremo il popolo in grado di reggersi, accontentandosi di poco governo, facendone addirittura a meno; e una volta

compiuto ciò, scompariremo dal mezzo del nostro popolo innamorato di noi; non ci vedranno mai più ma saremo

riveriti come dèi - mentre non veduti, sorridendo tra noi e noi, ci troveremo nella folla stessa che ci andrà cercando».

«Ho l'intenzione» disse Sibyl, rendendo più folli quei folli discorsi con la petulanza che così spesso mo strava,

«ho l'intenzione di introdurre una nuova moda nell'abbigliamento e questa sarà la mia parte nella gran riforma che tu

varerai. Quanto alla mia corona, la voglio di fiori, e quello strano, cremisino che sai, ne sarà il principale; e quando

svanirò, questo fiore rimarrà dietro di me, e forse mi riconosceranno per un attimo in mezzo alla folla, perché lo porterò.

Ebbene, dopo?».

«Dopo» disse Settimio, «avendo visto tante cose ed essendo vissuto per tante centinaia d'anni, mi siederò a

scrivere una storia come le storie dovrebbero essere e non sono mai state. E sarà così saggia e così vivida e così

ovviamente verace, che la gente ne trarrà la persuasione che nel suo mezzo si cela un immortale, perché soltanto un

testimone oculare avrebbe potuto scriverla o aver acquistato la sapienza necessaria a farlo».

«Quanto alla parte mia nella vicenda» disse Sibyl, «terrò nota delle varie misure della vita delle donne e della

moda delle loro maniche. E poi?».

«Ormai» disse Settimio, «quante centinaia d'anni non saremo dunque vissuti? Ormai, sarò pronto, tutto

sommato, a ciò che fin dall'inizio ho contemplato di fare. Diventerò un maestro di vita religiosa e promulgherò una fede

dandone la prova mediante profezie e miracoli; la mia lunga esperienza mi consentirà di fare le prime e la dimestichezza

con i misteri della scienza mi permetterà di effettuare questi ultimi con uno schiocco delle dita. Così sarò un profeta, più

grande di Maometto, e travaserò tutte le speranze dell'uomo nella mia dottrina, rendendolo buono, santo, felice; ed egli

leverà al Creatore preghiere che verranno esaudite perché saranno sagge e accompagnate da un sufficiente sforzo

d'attuazione. Sarà un'opera grande e forse mi preparerà ad altri riposi e ad altri passatempi».

[Magari ad una certa epoca vedrebbe levare una colonna in onore d'una sua grande impresa di un'età

precedente ].

«E che sarà?» domandò Sibyl Dacy.

«Ma, Sibyl» egli disse sogguardandola e parlando con una certa esitazione, «ho imparato che è uno spossante

peso per l'uomo restare sempre buono, santo e onesto. Nella mia vita di profeta consacrato ne avrò fin sopra i capelli, da

restarne stufo e nauseato, e mi verrà voglia di un altro genere di dieta. Così nei cent'anni successivi, Sibyl, in quel breve

secolo, credo che vorrei essere ciò che gli uomini chiamano cattivo. Come posso conoscere i miei fratelli se almeno una

volta non faccio quell'esperienza? Vorrei provare tutto. La fantasia è soltanto un sogno. Mi posso immaginare omicida

e, per giunta, posso figurarmi tutte le modalità del delitto, ma non me ne resta alcuna impressione nel cuore. Queste

cose le debbo vivere».

[La sfrenatezza aggressiva che è caratteristica della malvagità ].

«Bene» disse Sibyl, tranquillamente, «anch'io ?

«Anche tu?» esclamò Settimio. «Neanche per idea, Sibyl. Ti serberai buona e pura affinché mi rimanga il

mezzo per redimermi, un'ancora salda nella confusione morale che creerò intorno a me, e grazie a quell'appiglio potrò.50

successivamente tornare all'ordine, alla virtù e alla religione. Altrimenti tutto sarebbe perduto e potrei diventare un

diavolo, e creare intorno a me il mio inferno; così, Sibyl, sii tu buona per sempre e non cadere, non inciampare

nemmeno un istante. Promettimelo!».

«Ci penseremo in qualche altro secolo» replicò Sibyl, compostamente. «Ce n'è ancora del tempo. E poi?».

«Per adesso basta, veramente,» disse Settimio. «Nuove prospettive si dischiuderanno dinanzi a noi di continuo,

a mano a mano che procederemo. Com'è sciocco pensare che una breve vita possa esaurire il mondo! Dopo centinaia di

secoli sento che ci troveremo sempre ancora sulla soglia. Ad esempio c'è da perfezionare il mondo materiale, da far

sprigionare le forze della natura sì che l'uomo possa infondere vita a tutte le modalità della materia, facendone altrettanti

servi. Rapide possibilità di viaggio, per terra, per mare e per aria; macchine per compiere tutto quanto adesso eseguisce

la mano dell'uomo, sicché faremo tutto, salvo infondere l'anima nei nostri congegni di locomozione e d'orologeria; modi

di convertire la notte in giorno e di acquista re il controllo del tempo atmosferico e delle stagioni, delle virtù delle

piante... ecco alcune delle cose più facili fra quelle che mi aiuterai a fare».

«Non ci proverei alcun gusto» disse Sibyl, «salvo forse a fare un ricamo d'acciaio».

«È così, Sibyl» soggiunse Settimio, sempre nella sua vena di solenne entusiasmo, inframezzato di pazze

divagazioni, «procederemo attraverso tutti i secoli che vorremo. Forse, non lo credo, ma forse nel corso così prolungato

del tempo, scopriremo che il mondo è sempre lo stesso e che l'umanità permane sempre uguale e immutevoli restano le

possibilità dell'umana fortuna; sicché scopriremo che lo stesso vecchio scenario serve al gran teatro del mondo in tutte

le epoche e che la vicenda è sempre la medesima come sono sempre gli stessi gli attori, benché soltanto noi ce ne

rendiamo conto, e che tanto gli attori come gli spettatori se ne stancherebbero se non fossero immersi in un oblioso

sonno onde s'illudono d'essere ricreati come nuovi ad ogni vita successiva. Forse scopriremo che il dramma del mondo

e le passioni che paiono agitarvis i sono d'una grande monotonia, una volta che se ne abbia esperienza e che basta

provarli e osservarli per scoprirne il segreto, dopo di che la rappresentazione diventa troppo superficiale per fermare la

nostra attenzione. Come drammaturghi e romanzieri ripetono le loro trame così si ripete la vita umana, sì da diventare

alla lunga stantìa. Ecco il sospetto che m'è venuto nei miei momenti d'accidia. E che fare se effettivamente così stanno

le cose?»:

«Invero, codesta è una meditazione seria» rispose Sibyl, pigliando un'aria di simulato allarme, «ci stancheremo

o no della vita?».

«Non lo credo, Sibyl» rispose Settimio. «A forza di riflettere sulla questione sempre più mi convinco che

l'uomo non è capace di sbarazzarsi completamente della morte, la quale è evidentemente un rimedio per molti mali che

nient'altro potrebbe curare. Ciò significa che abbiamo scoperto come lo spostamento della morte ad una distanza

indefinita non sia soprannaturale, anzi sia fra le cose più naturali poiché consiste semplicemente nell'applicare i poteri

ed i processi della Natura per prolungare l'esistenza dell'uomo, il suo prodotto più perfetto, e questo si può fare soltanto

con l'accordo e la cooperazione della Natura stessa, la quale pertanto non viene modificata e di cui la morte resta uno

degli aspetti, come prima. Perciò, una volta esaurito il mondo, o con l'attraversarne la vasta gamma di possibilità o

rendendoci conto che esso è soltanto la ripetizione d'una medesima cosa, invocheremo la morte come un'amica che ci

deve introdurre a qualcosa di nuovo».

[Scriverebbe un poema o altra opera grande, dapprima non apprezzato, e vivrebbe tanto da vederlo diventar

famoso e si troverebbe fra i suoi posteri].

«Oh insaziabile amore della vita!» esclamò Sibyl, guardandolo con una strana pietà. «Non puoi concepire che

la mente ed il cuore mortale possano alla lunga essere contenti di addormentarsi?».

«Mai, Sibyl!» rispose Settimio, con orrore. «Il mio spirito si delizia al pensiero d'un'eternità infinita. Il tuo

no?».

«Un piccolo intervallo, pochi secoli appena, di sonno senza sogno» disse Sibyl, implorando. «Non me lo

potresti concedere?».

«Temo» disse Settimio, «che la nostra identità muterebbe in quel riposo; sarebbe un Lete fra due parti del

nostro essere, e con una tale scissione la continuazione della vita equivarrebbe ad una vita nuova e per ciò senza

valore».

Così parlando, cogliendo in quella nebulosità alcuni frammenti di filosofia, proseguirono saltando da un

argomento all'altro, e Settimio così sedò i propri entusiasmi, che altrimenti forse sarebbero scoppiati in aperta pazzia,

spaventando il placido paesello con le mirabili cose che essi stavano meditando. Settimio non poté accertare veramente

se Sibyl Dacy condividesse la sua fede nel successo dell'esperimento, e sperava di disporre ormai dei mezzi per ottenere

una vita illuminata né era sicuro che ella lo amasse, amasse tanto da intraprendere con lui la lunga marcia che le

proponeva, facendo della loro unione qualcosa tanto più importante di quel che non sia nella breve vita degli altri

mortali. Ma egli decise di offrire anche a lei la pozione senza prezzo, fidandosi del lungo avvenire, delle migliori

possibilità che il tempo gli avrebbe dischiuso e del fatto che egli sarebbe sopravissuto a qualunque rivale ed alla

solitudine in cui una vita interminabile l'avrebbe gettata senza di lui; queste erano le garanzie del suo successo.

* * *

Ed ora giunse il giorno felice del matrimonio di Robert Hagburn e della graziosa Rose Garfield, del coraggioso

e della bella; come di norma la cerimonia doveva avvenire la sera, in casa della sposa e furono compiuti i preparativi del

caso; le belle mani della sposa avevano mescolato alla torta le sue tenere speranze, aggiungendovi le spezie dei suoi.51

verginali timori, in una combinazione tanto eterea quanto sensuale; i vicini e gli amici furono invitati, e li

accompagnavano i loro migliori auguri e la massima buona volontà. Rose infatti non aveva ereditato la diffidenza, il

sospetto o che altro fosse, che aveva aduggiato il ramo principale della famiglia di Settimio, in una forma o nell'altra,

fin dove si spingeva la memoria dell'uomo; e tutti, eccetto forse alcune donzelle che avevano sperato di conquistarsi

Robert Hagburn, si compiacquero della prossima unione di questa coppia bene assortita, augurando ogni felicità.

Anche Settimio concesse il suo grazioso consenso, e mentre fra sé e sé pensava che una così breve unione non

valeva la pena del lavoro e della passione che la sorella ed il suo innamorato vi prodigavano, tuttavia augurava loro ogni

felicità. Paragonando la loro breve con la sua durata, sorrideva ai loro amori da niente, dei quali già gli pareva di vedere

la fine; erano il fiore d'una breve estate, che sbocciava in bellezza, e poi perdeva le foglie, mentre la fragranza avrebbe

continuato ad aleggiare un poco nella sua memoria per poi sparire per sempre. Egli si domandava per quanto tempo nei

futuri se coli avrebbe ricordato questo sposalizio della sorella Rose; forse di li a cinquecento anni qualche rampollo di

quel matrimonio, una bella ragazza simile nelle fattezze alla fresca avvenenza di Rose, o un giovanotto che avrebbe

rammentato la robustezza e la grazia virile di Robert Hagburn; ed egli avrebbe allora potuto rivendicare la conoscenza e

la parentela. Sarebbe rimasto il guardiano, di generazione in generazione, della propria stirpe; l'amico che sempre

sarebbe riapparso nei momenti di bisogno, e incontrando i suoi discendenti di epoca in epoca, avrebbe visto le tradizioni

intorno a se stesso diventare poetiche col passar del tempo sicché avrebbe sorriso vedendo le proprie fattezze pigliare un

aspetto più maestoso nella loro fantasia di quanto non avessero nella realtà. Così nel corso della loro vita, nella storia

della famiglia, egli avrebbe rintracciato se stesso e li avrebbe messi in rapporto con tutti i loro antenati e così sempre si

sarebbe riscaldato al contatto d'un sangue affine.

E Robert Hagburn, pieno della vitalità di quel mo mento, fervido d'un sangue generoso, venne con un'uniforme

nuova, con l'aria del fondatore di una stirpe che avrebbe avuto alle spalle un antenato eroico cui guardare.

Egli salutò Settimio come un fratello. E venne naturalmente anche il sacerdote, e si mescolò alla folla con aria

decorosa e salutò Settimio con un distacco più compunto del solito; Settimio si era infatti ritirato dall'intimità con lui a

mano a mano che era cresciuto l'entusiasmo per la sua impresa. Inoltre il sacerdote non mancò di notare che il suo già

devoto allievo aveva con tratto l'abitudine di studiare cose occulte, alle quali egli non era ammesso, e non accennava più

agli studi attinenti alla carriera sacerdotale; lo sfiorava il sospetto che Settimio avesse sfortunatamente permesso a idee

miscredenti di assalire, o addirittura di soverchiare la fortezza della ferma fede, che egli s'era sforzato di fondare e

rafforzare in lui; disgrazia, questa, da cui spesso vengono colpite le persone di natura speculativa, immaginosa e

malinconica come Settimio, che il Diavolo ad ogni istante concerta di assalire, fiducioso com'è di trovare un traditore

nella guarnigione. Il sacerdote aveva sentito dire che nella famiglia di Settimio questa era la norma e che anche il

celebre teologo, il quale ai suoi occhi ne formava la gloria, aveva passato in gioventù il suo periodo di violenta

miscredenza, prima che la grazia lo toccasse e in seguito per tutta la sua vita lunga e pia, era stato soggetto a periodi di

vera, sulfurea accidia, durante i quali non aveva più la fede che agli altri predicava con tanto vigore.

«Settimio, mio giovane amico» egli disse, «ti sei deciso a diventare un predicatore della verità?».

«Non ancora, reverendo» disse Settimio sorridendo all'idea venutagli il giorno innanzi, che la carriera di

profeta egli l'avrebbe pure abbracciata un giorno o l'altro. «Avrò tempo di predicare la verità allorché la conoscerò

meglio».

«Hai l'aria di conoscerla meno di una volta, altro che meglio» disse il suo reverendo amico figgendo lo sguardo

nei solchi profondi della fronte, negli occhi selvatici e turbati.

«Forse è così. C'è ancora tempo comunque» rispose Settimio.

Si scambiarono queste parole nel trambusto e nel brusio della serata, mentre gli ospiti si radunavano e tutti

attendevano il matrimonio con l'interesse che sempre quell'avvenimento comporta, per comune che sia, e soltanto la

morte è ancor più comune. Tutti congratulavano la modestissima Rose, che aveva un aspetto quieto e felice; e così al

momento designato ella si alzò ed il sacerdote li sposò con un certo fervore ed un'applicazione personale che li fece

sentire veramente sposati. Seguì il saluto alla sposa; il primo a baciarla fu il sacerdote, e poi i rispettabili vecchi giudici

e agricoltori, ognuno con un amichevole sorriso e una facezia. Poi fu fatto circo lare il dolce col vino e altre leccornie, e

seguirono gli scherzi tradizionali che a quel tempo si facevano agli sposi. Credo che si ballasse anche, benché non mi

sappia immaginare come le coppie trovassero spazio sufficiente nella stanzetta; comunque, dalle finestre sfolgorava una

luce abbagliante che splendeva sulla strada, e ne giungeva un tal suono di chiacchiericci e festevolezze che ai viandanti

sulla solitaria strada di Lexington veniva voglia di partecipare alla festa: uno o due si fermarono ed entrarono, e videro

la novella sposa, bevvero alla sua salute e si portarono a casa un pezzo della torta nuziale per sognarci sopra.

[Va osservato che Rose aveva chiesto alla sua amica Sibyl Dacy di farle da damigella (aveva il modesto

numero di due damigelle) e la strana giovane rifiutò dicendo che il suo intervento avrebbe portato sfortuna al

matrimonio ].

Perché dici tali assurdità, Sibyl?» domandò Rose. «Tu mi ami, ne sono sicura, e mi auguri ogni bene; ed il tuo

sorriso è già di per sé una promessa di prosperità che desidero risplenda sul mio giorno di nozze».

«O Rose, io sono un sinistro demone di sventura. Sono sprigionata da un sepolcro, e faresti meglio a non

invitarmi a intrecciare i miei viticci velenosi attorno al vostro destino. Avresti a pentirtene».

«Zitta, zitta!» disse Rose, chiudendo con il palmo della mano la bocca dell'amica. «Cattiva! Se tu volessi mi

potresti dare la tua benedizione, ma ti rifiuti per puro capriccio».

«Sii benedetta, allora, carissima Rose, e che ogni felicità arrida al tuo matrimonio!»..52

Settimio era stato debitamente presente allo sposalizio e baciò la sorella con umido ciglio, si dice, e con un

sorriso assai serio, consegnandola alla protezione di Robert Hagburn; e ci fu qualcosa nelle parole scambia te fra loro,

che in seguito le rimase nella mente, come se esse avessero un significato da indagare attentamente ed esigessero una

risposta.

«Ecco, Rose» egli aveva detto, «mi sono preparato al mio destino. Non ho altri vincoli e posso continuare il

cammino senza scrupolo alcuno».

«O Settimio, non sono forse ancora tua sorella?» ella disse, spargendo qualche lacrima.

«Una donna sposata non è una sorella, non è se non una donna sposata finché non diventi madre e allora che

cosa avrò più da spartire con te?».

Parlava come smanioso di svelare la cosa che lo assillava e che doveva restare incomprensibile a Rose; forse

era mosso dal desiderio di giustificare il distacco dalla propria stirpe che era in procinto di consumare per crearsi un

destino eccezionale il quale, anche se non lo doveva isolare del tutto avrebbe almeno stabilito rapporti nuovi fra lui e gli

altri. Eccolo, pover'uomo, che osservava la folla festante, non con l'esultanza che ci si sarebbe potuta aspettare, ma

aduggiato da una strana tristezza. Gli parve, in quell'istante finale, come se fosse la Morte a connettere insieme tutte le

cose, e Lei altresì a infondere calore in ogni caso. Lo stesso matrimonio, con le sue più dolci speranze, la sua santificata

comunanza, i suoi misteri, e con tutta quella calda misteriosa fraternità che unisce gli esseri i quali passano di mistero in

mistero in un breve bagliore di luce; con quell'incanto folle e soave dell'incertezza e della transitorietà, la Morte rendeva

tutti meravigliosi, innocenti, perfino i peggiori. Come era dura e prosaica la sua con dizione, paragonata a quella degli

altri. Sentì affiorare in sé un fiotto di tenerezza per loro, quasi avrebbe voluto buttar via la sua vita interminabile e

precipitarsi in mezzo a loro esclamando: «Un abbraccio! Sono ancora uno di voi e non vi voglio lasciare! Tenetemi

stretto!».

Dopo di ciò nessuno badò più alla scomparsa di Settimio e di Sibyl Dacy dalla festa, che proseguì altrettanto

allegramente senza di loro. Invero, le abitudini di Sibyl Dacy erano così stravaganti e così poco conformi alle norme

generali, che nessuno se ne meravigliava o tentava di darne una ragione; quanto a Settimio, era uno studioso, così poco

abituato a mescolarsi con i suoi concittadini, in qualsiasi occasione, che ci si meravigliava, semmai, che avesse passato

con loro una parte della festa, e non del fatto che ora si ritirasse.

Dopo che i due se ne furono andati, la compagnia si accrebbe di un altro ospite, nientemeno che l'egregio

dottor Porstoaken, che si presentò alla porta, annunciando di essere appena arrivato a cavallo da Boston, e che,

volendosi incontrare con Sibyl Dacy, era stato a cercarla in casa di Robert Hagburn, ma, saputo dalla vecchia nonna

dove ella si trovava, era venuto qui.

Quando non la vide non mostrò alcun allarme, ma fu facilmente indotto a sedersi con l'allegra compagnia,

assaggiando il cognac che Robert aveva abbondantemente fornito; erano tempi in cui l'uomo ancora non aveva imparato

a temere il bicchiere, sicché il dottore li trovò che chiacchieravano ilari fra loro. Tirando fuori la sua pipa tedesca si unì

al gruppo dei fumatori nell'angolo del camino e cominciò a conversare con loro, ridendo e scherzando, mescolando le

sue lepidezze a quel la misteriosa aria di sospetto che infondeva un carattere così strano alla sua conversazione.

«È un colpo di fortuna, signor Hagburn» egli disse, «che mi porta qui in questo fausto giorno. E come è andata

in questi ultimi tempi con il mio dotto amico il dottor Settimio, poiché così lo si dovrebbe chiamare; e come sono

progrediti ultimamente i suoi studi? Il mondo scientifico può aspettarsi buoni frutti da quel suo decotto».

«Non starà mai a paro con la zia Keziah nel preparare le cure d'erbe» disse una vecchia che fumava la pipa in

un angolo, «anche se diventerà, credo, un buon medico. Povera Kezzy, dopo tutto, prese un goccio di troppo della sua

mistura. Glielo dicevo io che sarebbe andata così, perché noi si era abbastanza buone amiche, prima che si facesse

sentire in lei così fortemente la sua parte indiana; l'indigena e la strega le aveva tutt'e due nel sangue, povera vecchia

Kezzy!».

«Davvero?» disse il dottore. «Io ho sentito anche una strana storia, che se i Felton volessero tornare al vecchio

paese, ci troverebbero una casa ed un fondo che li aspettano».

La vecchia ci pensò su e fece una pipata. «Certo» borbottò alla fine, «ricordo d'aver sentito qualcosa del genere

e anche se Felton volesse penetrare nelle foreste troverebbe una tribù di Indiani selvaggi pronti a pigliarselo per capo ed

a sottomettere, con lui alla testa, i bianchi; e che se avesse scelto d'andare in Inghilterra, c'era pronta per lui una grande

antica casa, con un camino acceso nel gran salone, con tavola imbandita ed un letto ne dall'alto baldacchino, tutto

pronto con le lenzuola migliori, nella camera migliore ed un uomo al cancello, in attesa di farlo entrare. Però c'era sulla

soglia l'incantesimo d'un'orma insanguinata lasciata dall'ultima per sona che era uscita, ed esso impediva che uno della

prosapia potesse mai riattraversarla. Ma sono tutte assurdità!».

«Strane vecchie faccende si sognano accanto ad un focolare» disse il dottore. «Ve ne sovvengono altre, oltre a

questa?».

«No, no; mi dimentico così facilmente delle cose, oramai,» disse la vecchia signora Hagburn; «è come se le

mie memorie fossero stipate nella pipa da cui escono arricciandosi in volute di fumo. Ho conosciuto da sempre questi

Felton, o mi pare che sia così; oramai ho novant'anni e ne avevo due al tempo della strega, ed ho visto un pezzo del

cappio con cui fu impiccato il vecchio Felton». Alcuni risero.

«Doveva essere uno spettacolo ben curioso» disse il dottore.

«Non sta bene» disse accigliatamente il sacerdote al dottore, «rimestare queste rimembranze, facendo sembrare

assurda la povera anziana signora. Non mi pare che ella si debba vergognar di avere le debolezze della sua generazione

e comunque non mi piace vedere la vecchiaia posta in una luce sfavorevole davanti ai giovani!»..53

«Mio buon reverendo» replicò il dottore, «non ho intenzione di mancare di rispetto, come sembrate credere.

Non vogliate, o potenze superne, che io getti il ridicolo su credenze, o forse voi le chiamate superstizioni, che sono fede

degne, per quel che ne so io, quanto quelle predicate dal pulpito. Se l'anziana signora mi vo lesse raccontare il segreto

della scienza del vecchio Felton, lo tesoreggerei come sacro, perché io interpreto queste antiche storie di doni

miracolosi nel senso che si aveva una perfetta padronanza della scienza naturale, delle virtù delle piante, delle facoltà

del corpo».

Mentre accadevano queste cose, o prima, in qualche momento di quella notte fatidica, Settimio, che si era già

ritirato nello studio, udì bussare discretamente alla porta e, aprendola, si trovò davanti Sibyl Dacy. Era come fosse corsa

un'intesa fra di loro, perché Settimio non si mostrò sorpreso ma le prese soltanto la mano, facendola entrare.

«Com'è fredda la tua mano!» egli esclamò. «Nulla lo è altrettanto, salvo la potente medicina. Mi fa

rabbrividire».

«Non ci badare», disse Sibyl. «Tu mi guardi tutto spaventato».

«Davvero?» disse Settimio. «Siamo ad un punto critico. E tu non sembri in te. I tuoi occhi mi guardano

stranamente».

«Certo. E non hai paura di me? Ebbene, tenterò di non aver paura di me stessa. Un tempo mi sarei temuta!».

Guardò lo studio di Settimio tutt'attorno con i suoi pochi vecchi libri, i suoi strumenti scientifici, i crogioli, le

storte, le macchine elettriche, a tutti questi oggetti prestò scarsa attenzione, ma sul tavolo davanti al fuoco qualcosa

l'attirò: il vaso che sembrava di cristallo, foggiato alla maniera in cui i Veneziani lavoravano le loro coppe, d'un vetro

purissimo, con un alto gambo, nel quale una decorazione s'intrecciava e attorceva elaboratamente. Era un'eredità dei

Felton, un oggetto prezioso trasmesso insieme a molte correlative tradizioni, la cui fragilità si era salvata nonostante

tutti i pericoli del tempo che aveva mandato in frantumi gl'imperi; se bastasse lo spazio potrei narrare molte storie

curiose in torno a questo vaso strano che si diceva fosse stato ai suoi tempi tanto lo strumento del sacramento diabolico

nella foresta, come di quello cristiano nella cappella del villaggio. Comunque sia, aveva fatto parte delle suppellettili

domestiche d'uno degli antenati di Settimio ed il loro stemma vi era inciso con grande perizia.

«Ed è questa la bevanda dell'immortalità?» disse Sibyl.

«Sì, Sibyl» disse Settimio. «Ma tocca la coppa e sentirai com'è fredda».

Ella posò le sue dita esili e pallide sul fianco della coppa e rabbrividì come aveva fatto Settimio quando aveva

toccato la mano di lei.

«E perché dovrebbe essere così fredda?» ella disse guardando Settimio.

«Davvero non lo so, forse perché una vita intermina bile percorre l'intero cerchio e incontra la morte, nel la

quale confluisce e si fonde. O Sibyl, questa che ho compiuto è una cosa tremenda! Non lo credi anche tu? E se questo

brivido dovesse scuoterci per l'eternità?».

«Hai forse perseguito questo fine così a lungo» disse Sibyl, «per nutrire adesso codesti timori? In tal caso io

avrei il coraggio di bere da sola e nel farlo ti disprezzerei, sorridendo della tua paura di cogliere la vita che ti viene

offerta».

«Non è che io tema» disse Settimio, «ma riconosco di aborrire con una strana forza da questa bevanda, né me

lo so spiegare salvo come reazione, come revulsione di sentimenti troppo a lungo tesi verso un'unica direttiva. Non ci so

far nulla. La meschinità, la piccolezza, le perplessità, e i fastidi della vita in genere mi pesano stranamente. Tu hai

rifiutato di bere con me, e allora penso che potrei in questo istante spezzare la gemmea coppa senza nemmeno

assaggiarne il contenuto, scegliendo la tomba come la soluzione più saggia».

«Questa coppa meravigliosa! Che peccato spezzar la!» disse Sibyl, con il suo sorriso caratteristico, maligno ed

enigmatico. «Non ti reggerebbe il cuore a farlo».

«Lo potrei, lo posso fare. Dunque non vuoi bere con me?».

«Sai che cosa stai chiedendo?» disse Sibyl. «Io sono un essere scaturito come questo fiore da una tomba, o

almeno mi radicai in una tomba e crescendo mi sono intrecciata alla tua vita, fino al punto che tu non puoi sfuggirmi.

Oh Settimio! Tu non mi conosci! Non sai che cosa prova per te il mio cuore. Non ricordi questa miniatura infranta?

Vorresti vedere le fattezze che vennero distrutte dal proiettile? E allora guardami!».

«Sibyl! Che cosa mi dici? Eri tu, erano i tuoi lineamenti che il giovane soldato baciò morendo?».

«Sì» disse Sibyl. «Lo amavo e gli diedi la minia tura e anche il volto che essa raffigurava. Io gli avevo dato

tutto e tu lo uccidesti».

«E dunque mi odii» mormorò Settimio.

«Lo chiami odio?» domandò Sibyl sorridendo. «E non ti ho forse dato soccorso, non ho forse pensato con te,

ascoltato i tuoi pazzi deliri allorché non osavi parlarne con nessun altro? Non ho forse ravvivato le tue speranze, non ti

ho agevolato dandoti utili suggerimenti? Non t'ho aiutato in altri modi che nemmeno sospetti? E adesso mi domandi se

ti odio. Sembrerebbe forse odio, il mio?».

«No» disse Settimio. «Eppure fin dalle prime volte che ti vidi in me qualcosa mi sussurrava che poteva essere

pericoloso frequentarti, era come se mi trovassi vicino a qualche insidia. In me c'è il sangue selvaggio e naturale

dell'Indiano, un'indole istintiva e animale la quale sa dare avvertimenti, con facoltà che la vita civile spiana e stronca, e

così, Sibyl, mai ti ho avvicinata senza forti riluttanze e ritrosie ma nel contempo sentivo il desiderio di stringerti a me ed

a questo cedetti. Ma perché mai, sapendo che in questo tumulo giace l'uomo che amavi, qui steso per mano mia, perché

m'hai aiutato a raggiungere un fine che, come ben ve devi, m'era prezioso come il respiro stesso?»..54

«Amico mio; nemico mio, se preferisci, devi dunque ancora imparare che il desiderio più intimo d'un essere

umano è spesso quello che lo rovina e rende infelice? Ma ascoltami, Settimio. Non ha importanza la mia vita di prima,

non c'è motivo che ti narri la mia storia, confessandone le debolezza e la vergogna. Forse avevo maggior ragione di

detestare colui che occupa questa tomba che non d'odiare te, mio inconsapevole vendicatore; tuttavia qui venni piena

d'odio e bramosa di vendetta, col proposito di stare in agguato, e piegare il tuo più caro desiderio contro di te, che ti

rodesse dentro e ti in stillasse veleno, mentre io, seduta su questo sepolcro, ne avrei attinto un odio sempre fresco;

infine, l'ora del tuo trionfo, volevo volgerla in un trionfo mio».

«E le cose starebbero tuttora così?» domandò Settimio, con bianche labbra, «o il tuo iniquo piano è mutato?».

«Settimio, debole sono, una debolissima ragazza e nient'altro, o Settimio; ho appena diciotto anni» esclamò

Sibyl. «Sono pochi, vero? Mi si possono perdonare tante cose. Ora sai che le mie intenzioni nei tuoi confronti erano

amare, ma forse che lo erano più di questo? Zitto! Non muoverti!».

Alzò la bellissima coppa dal tavolo, la portò alle labbra e ne mandò giù una sorsata, poi, sorridendo a Settimio,

gliela porse.

«Vedi; mi sono resa immortale prima di te. Vuoi bere?».

Egli tese la mano avidamente per afferrare la coppa, ma Sibyl la tenne per un'istante fuori della sua portata e

poi deliberatamente la lasciò cadere sul focolare, dove rabbrividì in mille minutissimi frantumi e tutta la fulgida, fredda

acqua d'immortalità si versò, spandendo il suo strano aroma.

«O Sibyl, che cosa hai fatto?» gridò Settimio con rabbia e orrore.

«Sta quieto! Aspetta a vedere quale immortalità ne ricavo e poi, se vuoi, ridistilla il tuo beveraggio

d'immortalità e bevilo anche tu».

«È troppo tardi, Sibyl; è una fortuna che può non ripresentarsi in tutta una vita. Perirò come un cane. È troppo

tardi!».

«Settimio» disse Sibyl, che pareva stranamente bella, come se la bevanda, dandole la vita immortale, avesse

anche il potere di conferire una consentanea bellezza, «ascoltami. Non hai ancora appreso tutti i segreti nascosti in

quelle vecchie leggende di cui tanto abbiamo parlato. Furono le ricette scoperte grazie all'arte del dotto vecchio Gaspar

Felton. Una si diceva fosse il segreto della vita immortale indagato da tanti antichi sapienti e che taluno di loro si diceva

avesse anche scoperto; eppure, se fosse vero, sarebbe strano che nessuno di loro sia vissuto fino ai nostri giorni. La sua

essenza era un certo fiore raro che produceva la bevanda dell'immortalità quando lo si mescolava secondo le regole con

gli altri ingredienti già per conto loro dotati di grandi poteri, ma ancora privi della virtù suprema fino a quando non si

fosse procacciato il fiore».

«Sì, e quel fiore lo possedevo, avendolo trovato in una tomba» disse Settimio, «e avevo distillato la bevanda

che hai sparso per terra». «Avevi un fiore o ciò che chiamavi un fiore» disse la donzella. «Ma Settimio, già per un'altra

bevanda gli stessi potenti ingredienti vennero impiegati, eccezione fatta per l'ultimo. In questa, invece del bellissimo fio

re, fu mescolata una sembianza di fiore, che in realtà era il nefasto prodotto d'una tomba, ed io stessa ve l'ave vo

seminato, ed esso convertì la bevanda in un veleno, celebre nella scienza antica, un veleno che usarono i Borgia e Maria

de' Medici, e che ha fatto morire molte persone celebri a talento dei loro nemici. Ecco la bevanda che ti ho aiutato a

distillare. Essa apporta la morte con piacevoli, deliziosi brividi dei nervi. O Settimio, Settimio, vale la pena di morire;

essere così beata ed esilarata come io lo sono adesso».

«Buon Dio, Sibyl, è mai possibile?».

«Certo, Settimio. Mi aiutò quel vecchio medico, il dottor Porstoaken, il quale, per un qualche suo fine

personale, m'insegnò quel che occorreva fare; è esperto di tutti i misteri di quei vecchi medici e sapeva che al meno i

loro veleni erano efficaci, qualunque cosa fossero i loro beveraggi d'immortalità. Ma le cose non si sono concluse come

intendevo. È così mutevole la fantasia d'una fanciulla, o Settimio. Credevo d'amare quel giovane sepolto nella tomba

lassù, ma amavo te, invece. E adesso sto per morire. Perdona le mie malvage intenzioni, poiché sto morendo».

«Ma perché hai sparso la bevanda?» disse Settimio chinando su di lei le sue scure ciglia e aggrondando la

fronte, «avremmo potuto morire insieme».

«No, vivi, o Settimio» disse la donzella, la cui faccia parve diventare luminosa e tripudiante; sembrava che la

bevanda della morte la esilarasse come un inebriante liquore. «Non te ne lascerei bere neanche un goccio. Ma pensare»

e scoppiò a ridere, «che castigo hai avuto, che mesi di fatica spossante hai trascorso e fra quei pensieri e sogni, mentre

durante tutto il tempo io soffocavo le risate nella manica! Ah, ah, ah! Poi cominciasti a progettare le nostre epoche

future, dedicandomi effusioni liriche e calcolate riflessioni. Forse che non la presi con molta modestia e non ti risposi

sullo stesso tono? Così mi amasti e generosamente volesti portarmi con te nella tua immortalità. O Settimio, mi sarebbe

piaciuto! O Settimio, come mi sarebbe piaciuto! Soltanto da poco ho scoperto come stessero le cose. Oh, come ti

circondavo di sogni e invece di darti un'esistenza immortale impastai di chimere e vapori la scarsa vita che ti è

destinata, tanto che nemmeno questa hai vissuto realmente. Ah, fu un passatempo divertente e divertente ne è questa

fine. Baciami, povero Settimio, un bacio soltanto!».

[Gli mostra l'aspetto ridicolo del suo progetto con molto brio.]

Ma allorché Settimio, che pareva stordito, si chinò istintivamente per obbedire, ella si tirò indietro. «No, non vi

sarà nessun bacio fra noi! Potrebbe essermi re stato un po' di veleno sulle labbra. Addio! O forse intendi ancora cercare

il tuo liquore d'immortalità? Oh, fu uno scherzo ben riuscito. Ne rideremo quando c'incontreremo nell'altro mondo».

E a questo punto il riso della povera Sibyl Dacy diventò più debole e a mano a mano che esso andava

smorendo ella moriva. Eccola, con quell'espressione allegra, quasi maligna ancora dipinta in volto, ma immota; così per.55

lunga che potesse essere la vita di Settimio, se di pochi anni o di molti secoli, questa immagine di lei gli sarebbe rimasta

confitta in mente. E giacque fra le speranze infrante di lui, ora del tutto distrutte, come la coppa che aveva accolto la

pozione e altrettanto impossibili a ripristinare in vita.

* * *

Il giorno seguente, poiché Settimio non si fece vedere, lo cercò il dottor Porstoaken. La camera era vuota, il

letto intatto. Allora lo si cercò sulla sua vetta preferita ma neanche lassù fu trovato, però vi si trovò una cosa che

accrebbe lo stupore e l'allarme. Era il corpo freddo di Sibyl Dacy, steso sul tumulo così spesso menzionato, come

tenendolo fra le braccia; ma guardando quel viso colpito dalla morte, gli astanti rimasero esterefatti per la sua

espressione maligna e allegra, come di chi avesse recitato un qualche ruolo spassoso, neanche avesse fatto una sorpresa,

combinato un tiro particolarmente vivace esploso in mezzo alla combriccola con fatata pirotecnica.

«Ah! È morta! Povera Sibyl Dacy!» esclamò il dottor Portsoaken. «Dunque il suo piano non è riuscito».

L'esclamazione pareva sottintendere una conoscenza dell'enigma; e gli astanti, fra i quali si trovava Robert

Hagburn, ne rimasero così impressionati, che ritennero opportuna un'indagine e così il dotto medico venne non senza

riguardo arrestato e interrogato. Molti particolari interessanti vennero scoperti, molti dei quali gettano una certa luce

sulla nostra narrazione. Ad esempio che Sibyl Dacy, la quale era nipote del dottore, era stata ingannata, sottratta alla

famiglia e portata oltremare da Cyril Norton e che il dottore, arrivando a Boston con un altro reggimento, ve l'aveva

trovata dopo la morte dell'amante. Qui c'era uno jato o un punto oscuro nella narrativa del dottore. Pareva che egli

avesse assecondato o istigato addirittura (non era del tutto chiaro fin dove si fosse spinto il suo concorso) il progetto

della povera ragazza di andare fantasticando sulla tomba dell'amante e di vivere a contatto con l'uomo che gliel'aveva

ucciso.

Il dottore non aveva molto da dire a proposito di se stesso, a questo riguardo, ma c'era motivo di credere che

egli avesse agito nell'interesse di qualche pretendente inglese d'una gran tenuta rimasta senza erede di retto dopo la

morte di Cyril Norton, e si sospettava perfino che egli, con la sua scienza fantastica e la sua empiria antiquata, fosse

stato l'anima del progetto di veneficio, intrecciato così stranamente all'idea che quasi aveva fatto impazzire Settimio, di

una bevanda d'immortalità. Il dottore era un tal ciarlatano in materia di scienza, che forse aveva perfino ingannato se

stesso, poiché sembrava aver nutrito una specie di fede nell'efficacia della ricetta venuta così stranamente alla luce, a

patto che si fosse scoperto il vero fiore; ma questo, secondo il dottor Portsoaken, non era stato visto sulla terra per secoli

interi, e forse ne era sbandito ormai per sempre. Il fiore, ovvero il fungo che Settimio aveva scambiato per un fiore, ne

era in realtà la controparte terrestre o diabolica, assai ricercata dagli antichi avvelenatori a causa della sua somma utilità

per la loro arte. In conclusione, poiché non si era scoperta alcuna prova concreta contro il degno dottore, gli si permise

d'andarsene e di sparire dai dintorni e, con scandalo di molti, non venne impiccato; lasciò pochi beni oltre alla tela ed

alla pelle svuotata d'un enorme ragno.

Quanto a Settimio, egli non ritornò più alla sua casetta accanto allo stradone e nessuno si prese la briga di

scoprire che cosa fosse successo di lui, schiacciato e annientato com'era dal fallimento dei suoi sogni meravigliosi e del

tutto assurdi. Si è vociferato comunque va rie volte che si fosse presentato un pretendente america no della grande

Smithell's Hall, il quale vi avrebbe fissato la residenza e avrebbe lasciato, morendo, dei figli e che nella generazione

successiva un antico titolo barona le fosse stato riesumato a favore del figlio ed erede dell'americano. Se costui fosse o

no il nostro Settimio non saprei dire; ma mi dispiacerebbe pensare che, dopo gli stupendi piani`che aveva formato,

avesse dovuto accontentarsi di inserirsi nella greve realtà della vita inglese, morendo al momento predestinato, per

essere sepolto come chiunque altro.

Qualche anno fa, trovandomi in Inghilterra, visitai Smithell's Hall e vi fui ospitato senza sapere di poter

chiamare mio compatriota per la sua discendenza il proprietario, benché, secondo adesso mi sovviene, mi colpisse la

sua fisionomia scarna, olivastra, americana e la figura leggera e snella e mi sembra (ma potrebbe dipendere dalla mia

immaginazione) di ricordare una certa caratteristica indiana nel bagliore dei suoi occhi e nel taglio del viso.

Quanto all'Orma Insanguinata, la vidi con i miei occhi e oserò suggerire che fosse soltanto una macchia

naturalmente rossastra della pietra, tramutata dalla superstizione in Orma Insanguinata.